L'escursione (2)
Una storia che sa di genitori opprimenti e predatori in agguato
Seconda e ultima puntata
Dopo la malga dei Zoratti bisognava affrontare la gola. Matteo ci era arrivato senza incontrare anima viva, né umana né animale, e non sapeva se rallegrarsene o meno. La solitudine gli piaceva, lo aiutava a riflettere, a conoscersi. D’altra parte, però, in quel posto avrebbe preferito la presenza, anche lontana, di qualcuno.
Il sentiero sormontava la gola per un lungo tratto e in certi punti risultava pericolosamente esposto. In fondo alla gola, cinquanta metri più in basso, correva il torrente ancora minuscolo che poi, giù a valle, si trasformava nel grande fiume che tutti conoscevano.
Le storie legate a quel posto erano numerose, sinistre e piene di morti. L’ultima in ordine di tempo riguardava una ragazza che tre anni prima era stata ritrovata senza vita sul greto del torrente, coi segni orribili della caduta a renderne irriconoscibile il volto. Incidente o suicidio? Nessuno aveva mai potuto stabilirlo.
Forse fu il pensiero di quel volto orrendamente sfigurato a distrarlo. Fatto sta che Matteo, proprio nel passaggio più pericoloso, che bisognava attraversare tenendosi ben saldi a un cordino d’acciaio fissato nella roccia, mise un piede in fallo e scivolò. Perse prima la presa sul cordino e poi il contatto dei piedi col terreno.
Il volo, però, durò poco. A salvarlo fu un cirmolo isolato, sul quale Matteo andò a sbattere fermandosi ai suoi piedi. Sotto di lui, il torrente continuava a scorrere imperturbabile. Non fosse stato per quel cirmolo, adesso si sarebbe trovato laggiù, probabilmente già cadavere, lambito da quelle acque limpide e ghiacciate. A pensarci, il ragazzo rabbrividì forte.
Quando si fu ripreso dallo spavento, Matteo provò ad alzarsi. Ci mise poco a capire che il ginocchio sinistro era fuori uso. Gli faceva un male cane, che aumentava appena provava a muoverlo. Una distorsione, probabilmente. Rinunciò quindi a ogni velleità di movimento e rimase fermo ai piedi del cirmolo, a riprendere fiato e raccogliere i pensieri.
Si guardò attorno: non c’era nessuno. Allora provò a gridare, ma nessuno rispose. Il telefono fu il pensiero successivo. Lo estrasse dal marsupio e solo a quel punto si ricordò che nella gola non c’era campo.
E adesso? Matteo cercò di mantenere la calma. Erano le undici di mattina, restavano ancora molte ore di luce. In giro gli escursionisti erano ancora pochi, specialmente su quel sentiero. Però era pur sempre estate e qualcuno, prima o poi, sarebbe arrivato senz’altro, si disse. Più per farsi coraggio che per reale convinzione.
Mentre passavano le ore e il dolore al ginocchio aumentava insieme al gonfiore, Matteo si ritrovò a riflettere sulla propria vita. Se con la caduta di poco prima non avesse avuto tanta fortuna, sarebbe già finita. “Matteo Tamanini 2008-2023”, avrebbero scritto sulla lapide. Una vita insignificante. Non avrebbe lasciato alcuna traccia dietro di sé. Nessun buon ricordo, nessuna particolare impresa, niente di niente. Forse persino i genitori, dopo il dolore iniziale, avrebbero presto dimenticato quell’unico figlio che li aveva sempre e solo delusi. E che, per una stupida dimostrazione di orgoglio, aveva infine trovato una morte ridicola, in montagna, lungo un sentiero che non avrebbe mai dovuto percorrere da solo.
Il sole stava ormai tramontando. Non era passato nessuno. Matteo aveva continuato a gridare, ma nessuno aveva risposto. Non riusciva a capire perché non fossero ancora venuti a cercarlo. Lui avrebbe dovuto trovarsi a casa già da un pezzo, a quell’ora: i suoi avrebbero già dovuto dare l’allarme.
Le cose, con l’arrivo della notte, si sarebbero pericolosamente complicate. In montagna diventa freddo subito, quando il sole scompare. Matteo si era già messo addosso il vestiario di riserva, nient’altro che un’ulteriore maglietta a maniche corte e una maglia più pesante a maniche lunghe: nulla che gli avrebbe permesso di superare la notte senza diventare un pezzo di ghiaccio. Oltretutto aveva già finito il cibo, e ora stava per finire anche l’acqua.
La cosa peggiore, però, era il sonno. Passato da un pezzo l’effetto dell’adrenalina, ora il ragazzo si sentiva stanco, stanchissimo. Avrebbe voluto solo dormire, ma sapeva che era la cosa più sbagliata da fare, perché in quel modo si sarebbe raffreddato molto prima. Per un attimo, tuttavia, il sonno lo vinse, ma Matteo si ridestò subito. Doveva restare sveglio, si disse. A tutti i costi.
Fu a quel punto che udì un rumore. Un ramo spezzato. Si guardò attorno, ma ormai era buio e non riusciva più a distinguere le ombre davanti a sé. Accese la torcia del telefono, ma non vide niente di anomalo. Poi la spense, perché non voleva rischiare di scaricare la batteria. Fu allora che gli vennero in mente i predatori. Orsi e lupi. La notte, pensò con angoscia, è il momento in cui si mettono in movimento, in cerca di cibo.
Il rumore si sentì di nuovo. Molto più vicino di prima. Impaurito, Matteo riaccese la torcia e stavolta li vide.
Davanti a lui, a una distanza di circa un paio di metri, schierati a semicerchio, c’erano cinque lupi.
Matteo sbiancò. L’istinto gli suggerì di scappare, come fa ogni preda. Fu solo una fitta lancinante al ginocchio a bloccarlo, e fu la sua fortuna. Vinto dalla morsa congiunta del dolore e della paura, il ragazzo svenne.
Quando riaprì gli occhi, pochi istanti dopo, i lupi erano ancora lì. Nel vederli, Matteo per poco non svenne di nuovo. Ma riuscì a evitarlo, stavolta. Si ricordò le parole del padre. “I lupi l’uomo non l’aggrediscono”, aveva detto. Eppure adesso erano lì, al suo cospetto. E lui era la preda perfetta. Inerme, bloccato. Cinque contro uno. Lo stavano studiando. Non appena avessero capito che lui non poteva difendersi né fuggire, l’avrebbero aggredito e sbranato. Come lo sfortunato personaggio di Jack London, nella scena iniziale di “Zanna Bianca”.
- Non sono buono - disse Matteo, con voce tremante. - Lasciatemi stare.
Aveva parlato ai lupi. Gli era venuto istintivo. Per quanto inutile e ridicola, era l’unica cosa che poteva fare.
Quelli continuarono a fissarlo impassibili per un lungo istante.
- Non ci piace la carne umana - ruppe il silenzio il più grosso dei cinque, posizionato in mezzo al branco. - Ma non mangiamo da troppo tempo e abbiamo fame.
Matteo non fu per nulla sorpreso dal fatto che l’animale avesse parlato.
- Capisco - rispose con un filo di voce.
“Matteo Tamanini 2008-2023”. Era proprio così che doveva andare. Era scritto. Matteo si domandò se fosse peggio morire dopo un volo di cinquanta metri o sbranato da cinque lupi.
- Posso chiedervi un favore, prima? - domandò.
- Fai pure - disse il lupo.
- Potete risparmiare il mio volto?
Il lupo non rispose subito. Guardò gli altri quattro, prima, e poi parlò.
- D’accordo - disse.
Matteo tirò un sospiro di sollievo. Non l’avrebbero ritrovato orrendamente sfigurato come quella ragazza. I suoi genitori si sarebbero risparmiati almeno quello.
- Grazie - disse. - E adesso fate quello che dovete.
- Vorremmo prima chiederti perdono - disse il lupo.
Matteo aggrottò la fronte.
- Perdono?
- Sì. Lo facciamo sempre, con le nostre vittime. Se non avessimo fame, non le mangeremmo. Ma non abbiamo scelta.
Matteo rimase attonito. Pensò a quante migliaia di volte i lupi erano stati uccisi dall’uomo con odio, senza alcun bisogno della loro carne, solo per la volontà di sterminarli.
- Vi perdono - disse. E pensò che era quella la cosa più importante, forse l’unica, che aveva fatto in vita sua. Perdonare quei lupi.
Poi si svegliò.
Il rumore dell’elicottero di soccorso, sopra la sua testa, era assordante.
I riflettori del mezzo illuminavano a giorno lui e i dintorni.
A quel punto Matteo capì: si era addormentato e aveva sognato tutto.
I soccorritori si calarono.
Si accertarono delle sue condizioni e poi lo caricarono sopra una barella.
Fu allora che, mentre veniva issato, ormai a un paio di metri da terra, Matteo scorse, attorno al cirmolo, illuminate dai riflettori, delle impronte ben impresse nel terreno fangoso. Erano simili a quelle di un cane, ma più grandi. Ed erano tante.
Senza più sapere cos’era stato sogno e cosa realtà, Matteo perse definitivamente i sensi.
- Sei stato il primo umano disposto a perdonarci - gli disse il lupo. - E così ti abbiamo risparmiato.
Bello, coinvolgente, toccante. Bellissima la fine.
Bellissimo, toccante, poetico! Matteo ci dà una grande lezione di vita; riscopriamo la nostra umanità, l’unica dimensione umana capace di salvarci e di salvare il mondo.