Quarta puntata di quattro
3. I rossi
- Anche tu su questo carro? - le domandò.
Il carro era uno di quelli che Giovanni Rovelli metteva gratuitamente a disposizione delle sue operaie per trasferirle ogni giorno dal villaggio alla fabbrica e viceversa. Tutti gli abitanti del villaggio che lavorassero altrove in città potevano approfittarne e salire a bordo, ma loro dovevano pagare.
- Sì - rispose quella, sorpresa dal fatto che proprio quel ragazzo, il ragazzo più bello del villaggio, di dieci anni più grande, avesse rivolto la parola proprio a lei in mezzo a tante. - Lavoro alla fabbrica di tabacco, comincio oggi.
- Capisco - disse lui. - Io invece alla fabbrica del vetro. Da ormai cinque anni.
- Capisco - disse lei.
Poi rimasero in silenzio, rotto solo dal rumore delle ruote del carro sull’acciottolato.
- Io mi chiamo Franco - disse lui, per quanto lei probabilmente già lo sapesse.
- E io Rita - rispose lei, per quanto lui probabilmente già lo sapesse.
A quel primo, breve scambio di battute ne seguirono altri, inizialmente sempre su quel carro, poi anche altrove. In città si davano appuntamento al bar davanti alla fabbrica di tabacco. In paese, lungo i sentieri di campagna prima, al vecchio fienile poi.
La prima volta che si videro lì, una domenica pomeriggio di primavera, il cuore batteva forte a entrambi, perché si sapeva cosa ci andavano a fare, un ragazzo e una ragazza, al vecchio fienile. Era stato lei a proporglielo.
Fu proprio quel giorno, dopo l’amore, mentre se ne stavano abbracciati sulla paglia, che lui le parlò per la prima volta di Michail Bakunin.
- Mai sentito? - le domandò dopo averglielo nominato.
- No, mai - rispose lei.
- Nemmeno io sapevo chi era. Poi in fabbrica ho conosciuto dei compagni che me ne hanno parlato. È stato un grand’uomo. Era un russo, ma ha vissuto per un po’ anche qui in Italia, una trentina d’anni fa. Ha spiegato a noi oppressi l’importanza di combattere lo sfruttamento dei padroni. Che sono i preti, che sono i capitalisti, che sono gli uomini dello Stato. Bakunin diceva che gli oppressi devono agire, devono fare la rivoluzione, per creare una società uguale, giusta, senza classi, senza sfruttati né sfruttatori. Una società senza gente come Rovelli, ricchi da fare schifo. Una società senza gente come me e te, schiavi d’una catena di montaggio. Una società dove gente come me e te vivrebbe libera, in armonia con la natura.
Rita, molto colpita, rimase qualche istante in silenzio.
- Sarebbe bello - disse infine.
Allora Franco si liberò dal suo abbraccio, si sollevò dalla paglia e la guardò negli occhi.
- La faresti la rivoluzione con me, Rita? - le domandò.
E lei, entusiasta, rispose di sì.
Fu circa un anno dopo che Franco le chiese di sposarlo.
Rita restò di sasso. Non sapeva se essere felice o contrariata.
- Sposarci? Ma non eravamo contro i preti? E il matrimonio non era un contratto oppressivo?
Franco le sorrise.
- Certamente - le disse. - Ma è il solo modo per fare la nostra rivoluzione.
Rita, interdetta, lo guardò senza capire.
- Sai bene cosa fa il tuo padrone alle sue operaie, la notte del loro matrimonio...
Rita annuì, lo sguardo di colpo indurito. Eccome se lo sapeva. In fabbrica, i racconti di quelle che ci erano passate erano rivoltanti.
- Vorrà farlo anche con te, se ci sposeremo - proseguì Franco, concitato. - Ma noi glielo impediremo. Ecco il piano. Rovelli verrà a prenderti e tu andrai con lui al castello. Poco dopo, di nascosto, io e altri tre compagni, anarchici di città, vi seguiremo. Sistemeremo i guardiani e ci nasconderemo nel giardino, dove si affaccia la camera da letto, che avrà la luce accesa e le tende scostate. Lui ti lascerà sola lì dentro per un po’. Quando tornerà per infilarsi a letto, tu gli chiederai di accostare le tende. Sarà il segnale. A quel punto faremo irruzione e ti libereremo dalle sue sporche mani. Arriveremo armati e a volto coperto. Gli faremo molta impressione. Lo processeremo per tutti i suoi crimini e lo condanneremo ad avere paura per il resto dei suoi giorni. Sarà un atto rivoluzionario. Per la prima volta il padrone non riuscirà a esercitare il suo presunto diritto. Per la prima volta non riuscirà a opprimere.
Rita rifletté per un lungo istante. Quel piano in sé non la spaventava e anzi le piaceva parecchio. A intimorirla erano le conseguenze che avrebbe avuto la sua attuazione.
- E poi? - domandò. - Come faremo? Quel bastardo ce la farà pagare. Mi licenzierà. Ci renderà la vita impossibile.
- Nulla di tutto questo avrà più importanza, Rita. Semplicemente perché noi due, quella notte, dopo aver lasciato il castello, ce ne andremo.
Rita sgranò gli occhi.
- Andarcene? E dove?
- In America, dove vivono molti compagni pronti ad accoglierci. Dove dicono che gli orizzonti siano più ampi e la vita migliore di qui, più libera, senza sudditi né re.
Rita ripeté più volte, nella sua mente, la parola America. Non aveva la più pallida idea di come si vivesse, laggiù. Quella sola parola, tuttavia, aveva il potere di suggestionarla, eccitarla, farla sentire più leggera. Del resto, si disse, non aveva niente da perdere, ad andarsene. Soltanto una famiglia di ipocriti e un lavoro da schiava.
- Allora, Rita, vuoi farla o no la rivoluzione con me? - la incalzò Franco.
E lei, entusiasta, rispose di sì.
I due si sposarono qualche tempo dopo. Celebrato il matrimonio, arrivò la notte. E con la notte la carrozza del padrone.
Sotto la pioggia, sulla porta di casa, Franco la osservò ripartire veloce verso il bosco, verso la montagna, facendosi piccola sull’acciottolato, sempre più piccola, fino a sparire del tutto. A quel punto tornò dentro, ad attendere i tre compagni che dovevano arrivare dalla città, portando con sé le pistole.
Franco era preoccupato, perché i compagni dovevano già essere lì. Rovelli concedeva sempre un’ora di ristoro alle sventurate che entravano nella sua camera da letto, prima di violentarle. Il bagno caldo, l’asciugamano candido e soffice, le lenzuola profumate. Per quanto sempre sussurrato a bassa voce, mai in pubblico, il racconto di quelle prime notti, consumatesi a decine e decine nel corso di mezzo secolo, s’era fatto col tempo progressivamente più netto e preciso. Quindi loro sapevano di avere un buon margine di tempo, prima che arrivasse il momento d’irrompere dentro quella camera a pistole spianate. Franco, però, era irrequieto comunque. Sapere che Rita adesso si trovava nelle grinfie di quel porco lo atterriva e al tempo stesso lo rendeva furente. Quel ritardo inspiegabile da parte dei compagni non fece altro che innervosirlo ulteriormente.
L’attesa, sfibrante, si protrasse per quasi un’ora. Disperato, Franco si era ormai rassegnato a dover salire al castello da solo e disarmato, quando finalmente udì un gran frastuono di zoccoli sull’acciottolato.
- Dove cazzo eravate? - apostrofò i compagni quando gli furono davanti.
- Ci hanno fermato le guardie - rispose uno di loro, trafelato. - Ci hanno trattenuti e per fortuna non hanno trovato le pistole...
Senza ribattere, Franco montò sul proprio cavallo e i quattro partirono di volata verso il castello, facendo tremare prima le strade del villaggio e poi il sottobosco. Alla luce della luna, parevano un branco di lupi sbavanti lanciati sul cervo. Ma i cervi in realtà erano loro, e il lupo, per una volta, la loro preda.
Giunsero davanti alla cinta muraria e trovarono il portone aperto e i due guardiani a terra, senza vita. Trasalirono. Cos’era successo? Chi era stato?
Come stabilito, attaccarono lì i cavalli e con un brutto presentimento avanzarono verso il castello a piedi, rapidissimi, senza fare rumore. Quando Franco vide che le tende della camera da letto erano già accostate, ebbe un tuffo al cuore, temendo che l’irrimediabile fosse già accaduto.
Penetrarono all’interno, percorsero a balzi la scalinata che conduceva al primo piano, videro la luce in fondo al corridoio, la seguirono e irruppero nella camera, il viso celato dai fazzoletti rossi e le pistole in pugno.
- Fermo o sparo! - intimò Franco all’uomo che sul letto sovrastava Rita, e che non era Rovelli, perché Rovelli era legato a una sedia, lì di fianco.
La sparatoria che seguì, avviata dal colpo di uno dei briganti, fu breve ma devastante.
Quando le armi furono scariche e la polvere si posò, a terra si contarono sei uomini, ormai cadaveri: tre briganti e tre anarchici.
Il Bello e Franco, pistole in pugno, si fronteggiavano truci, uno a destra del letto, l’altro a sinistra. In mezzo a loro, il volto pallido e terrorizzato a fare capolino dalle lenzuola, Rita. Di fronte a Rita, altrettanto pallido e terrorizzato, Rovelli.
Fine della quarta puntata
La quinta verrà pubblicata il 23 gennaio 2025
Il flashback mu aveva spiazzata per un attimo. Ok aspetterò la singolar tenzone.