Gli occhi del leopardo (4)
Una storia che sa di fotogiornalismo, guerriglia e popoli della foresta
Quarta puntata di cinque
Si trattava del popolo della foresta, mi spiegò la guida strada facendo. Erano i discendenti dell’antica comunità paleolitica che abitava lo Sri Lanka già ventimila anni prima. Un tempo diffusa in tutta l’isola, la loro cultura di cacciatori-raccoglitori era ormai confinata sulle alture centrali e rischiava l’assimilazione e dunque l’estinzione.
Il villaggio dei vedda era formato da una trentina di capanne fatte di tronchi e frasche di palma. La pioggia aveva trasformato in un pantano lo spiazzo su cui erano state costruite. Solo la zona nei pressi della parete di roccia che sormontava lo spiazzo, più riparata, era libera da rivoli e pozzanghere. Fu lì che ci condussero, sotto gli sguardi curiosi degli abitanti. Il capo clan, circondato da altri anziani, sedeva sotto un riparo nella roccia. Accanto a lui ardeva un grande fuoco. Uno dei cinque uomini che ci avevano soccorso nella foresta gli parlò in una lingua diversa dal singalese, che non avevo mai udito. Dopodiché, il capo clan ci fissò con espressione severa per un lungo istante. La pelle del volto era solcata da mille rughe, ma sotto i capelli bianchi luccicavano due occhi vispi, senza età. Poi sorrise e ci rivolse la parola, stavolta in singalese. Potevamo sederci di fronte a lui, mi tradusse la guida, perché l’uomo voleva parlare con noi.
Gli raccontai chi fossi e cosa ci facessi lì, in Sri Lanka e in quella foresta. Annuiva interessato e parve capire ogni cosa. Il leopardo, mi disse quando finii di parlare, è come noi vedda: ridotto ormai a pochi esemplari e a rischio di estinzione. Come a noi, gli hanno tolto la foresta, il suo regno. E, come noi, ha paura di voi, gente del mondo di fuori, e delle vostre armi da fuoco. Per questo si nasconde. Incontrarlo non è più facile come un tempo. Il leopardo, oggi, si mostra solo a chi lo sa vedere. Annuii, anche se il senso di quell’ultima frase mi sfuggì.
Se ti accontenti, mi disse il capo clan, hai il permesso di fotografare noi. Per sopravvivere dobbiamo farci conoscere. Non possiamo più rimanere invisibili al mondo di fuori, abbiamo bisogno di protezione. Ormai il contatto con la gente di fuori era avvenuto e andava gestito, spiegò, altrimenti lo avrebbero soltanto subìto, fino a scomparire. Abbiamo bisogno della foresta, disse, non possiamo continuare a ritirarci. Dobbiamo convincervi a lasciarcela, o alla fine i vostri mercanti ce la porteranno via tutta. Lo ringraziai e gli promisi che li avrei fotografati senz’altro.
I nostri bambini, proseguì dopo avermi ringraziato a sua volta, vi vedono e vogliono parlare con voi, vogliono essere come voi. Non vogliono vivere così, in mezzo a un pantano, disse allargando le braccia. Ormai non ci sono più posti buoni dove costruire i nostri villaggi, spiegò, quando piove il fango ci inonda e dobbiamo spostarci nelle caverne finché la stagione delle piogge non finisce. Gli domandai allora perché non canalizzassero le acque. Parve non capire. Avevo fatto il servizio civile presso una ong che operava nel Sud del mondo, e varie volte mi ero trovato alle prese con la necessità di canalizzare le acque in villaggi simili a quello dei vedda. Erano passati ormai quasi vent’anni, ma con l’aiuto di solide braccia avrei potuto riuscirci anche lì. Glielo dissi. Gli spiegai che, se facevano come gli dicevo, il pantano non si sarebbe formato nemmeno con le piogge più abbondanti. I suoi occhi luccicarono. Mi domandò di cosa avessi bisogno. Gli chiesi dieci uomini, attrezzatura per scavare, pietre di piccolo taglio, tronchi e frasche. Ottenni tutto e diedi il via ai lavori.
Appena prima che calasse la tenebra, il sistema di canalizzazione era pronto. E potemmo anche testarlo. Tornò a piovere e l’acqua, stavolta, si mise a correre solo nelle canaline che avevamo scavato e reso drenanti, lasciando indenni le capanne. I vedda mi circondarono festosi e riconoscenti. Il loro capo mi raggiunse e s’inchinò al mio cospetto. La sensazione di essermi reso utile a qualcuno mi rese felice come non mi sentivo da tempo.
La pioggia cessò presto e fu seguita, quella notte, da una grande festa, anche se non capii se si trattava di un’eccezione o piuttosto di un’abitudine, presso quel popolo. Attorno al grande fuoco mangiammo carne di cervo e bevemmo vino di palma, poi iniziarono i canti e le danze. Alcuni uomini cantavano e altri battevano sui tamburi un ritmo ipnotico e indiavolato, mentre le donne e i bambini ballavano con altrettanta frenesia.
I vedda erano animisti e il capo clan, accanto a me, mi spiegò che a quella festa stavano partecipando anche gli spiriti della foresta, e prima di tutti quello del leopardo. Il canto che stavano intonando in quel momento parlava di un leopardo e di un uomo che decidevano di vivere in amicizia, senza contendersi le prede, ma dividendole rispettosamente tra loro. Annuii, dicendogli che mi sembrava molto giusto.
Poi spostai lo sguardo sulle danzatrici. Erano nude e belle, però non era la loro nudità né la loro bellezza ad attirarmi, ma i loro sorrisi. Domandai al capo clan perché ballavano solo le donne e gli uomini no. Perché le donne, tra i vedda, erano le regine, mi spiegò, e gli uomini i loro servitori. Annuii, e gli dissi che anche quello mi sembrava giusto. Poi tornai a osservare le danzatrici. Guardavo in particolare una di loro, che pareva la più felice di tutte, e aveva l’età di mia figlia. Finalmente, durante quel viaggio, riuscii a ricordarmi di lei senza turbamenti. Presi la macchina fotografica e immortalai la giovane vedda intenta a ridere e a ballare, senza altri pensieri se non quello di vivere nonostante tutto. Ed ebbi così la miglior immagine di quell’ultima tappa del mio viaggio.
Fine della quarta puntata
La quinta verrà pubblicata il 25 luglio 2024
Non conoscevo i Vedda... Grazie per questa scoperta.
Curiosissimo su come va a finire... Anche se un'idea ce l'ho...