Gli occhi del leopardo (3)
Una storia che sa di fotogiornalismo, guerriglia e popoli della foresta
Terza puntata di cinque
Terza tappa: la foresta
Prima del rientro a Colombo, dove avrei preso l’aereo che mi avrebbe riportato in Italia, era prevista la terza e ultima tappa del mio viaggio. Quella che mi ero scelto io. Quella che più m’interessava. Mi sbarazzai del londinese e raggiunsi da solo, coi mezzi pubblici, la principale città al centro dell’isola, dove mi fermai una notte, giusto il tempo di trovare una guida disposta a portarmi sugli altipiani centrali: l’habitat del leopardo dello Sri Lanka.
La guida era un singalese minuscolo e taciturno, il quale, come la maggior parte della gente povera sull’isola, e quindi quasi tutti, parlava un inglese peggiore del mio, e quindi pessimo. L’unica cosa che seppe dirmi, e me la ripeté più volte, fu che la stagione delle piogge era in arrivo, e salire sugli altipiani era sconsigliabile. Gli diedi il doppio di quello che mi aveva chiesto e tornò a tacere.
Partimmo di mattina presto, con un cielo effettivamente parecchio grigio. La jeep s’inerpicò lungo la strada che portava verso l’interno, la sola asfaltata. Finché a un certo punto, oltre i mille metri di quota, l’abbandonammo per sterzare bruscamente su una pista sterrata, stretta e tortuosa, che tagliava in due la distesa verde, abbagliante, apparentemente infinita, della foresta pluviale.
Proseguimmo per quasi un’ora, sempre più lenti, alzandoci ulteriormente di quota, finché la guida mi disse che da quel punto in poi potevamo fermarci ovunque, perché eravamo già entrati nell’habitat del leopardo. Io gli dissi di fermarsi dove meglio credeva. Lui proseguì ancora per un paio di minuti, poi arrestò la jeep sul ciglio della strada e spense il motore. Ci avvolse un silenzio irreale, interrotto solo dalle grida dei langur e dei lori, che tra gli alberi lanciavano il loro segnale d’allarme: anche quelle scimmie erano endemiche dello Sri Lanka, pensai, ma non erano belle quanto il leopardo.
La guida mi osservò estrarre dallo zaino il mio grosso teleobiettivo e scosse la testa perplesso. Gli domandai se c’era qualcosa che non andava. Quell’affare era lungo come un fucile, disse, ma non sparava, e quindi col leopardo non serviva. Sorrisi. Devo fotografarlo, gli feci notare, mica ucciderlo. Sorrise anche lui. Spero per te che il leopardo sia d’accordo, disse. Lui un fucile vero ce l’aveva, e se lo mise in spalla.
Ci addentrammo per qualche centinaio di metri nel fitto della boscaglia, la guida davanti e io dietro. Poi il singalese si fermò e si appoggiò a un albero. E adesso, gli domandai. Adesso aspettiamo, rispose. Il leopardo, mi disse, dovrebbe battere quel tratto laggiù, dove vedi quel passaggio. M’indicò un declivio poco sotto i nostri occhi. Io il passaggio non lo vedevo. Quando il leopardo ci passerà, mi rispose, lo vedrai.
Aspettammo a lungo, ma il leopardo non arrivò. Arrivò invece la pioggia. Torrenziale. L’avevo detto, disse la guida. Erano le prime acque di stagione, mi spiegò, abbondanti ma di breve durata. Col passare dei giorni sarebbero aumentate. Tornammo di corsa alla jeep, per ripararci al suo interno. Quando vi entrammo, eravamo già fradici. La pioggia cadde ancora per un’ora abbondante, poi di colpo cessò.
Uscimmo dalla jeep. L’aria, anziché rinfrescarsi, s’era fatta ancora più umida e pesante. La guida, guardando prima la strada e poi il cielo, scosse la testa. Torniamo a valle, mi disse. Sorpreso, gli domandai perché. Pioverà ancora, mi spiegò. La strada, già molto precaria, avrebbe rischiato di diventare impraticabile, e noi di restare bloccati in mezzo alla foresta. Mi opposi. Non avevo ancora visto il leopardo, e quella era l’ultima occasione della mia vita per fotografarlo. L’avevo pagato per l’intera giornata, gli dissi, e quindi dovevamo restare. Lui, però, non voleva sentire ragioni. Allora tirai fuori il portafoglio e gli misi in mano una quantità di denaro che non gli sarebbe bastato un anno di lavoro per guadagnare. A quel punto si convinse e tornammo ad appostarci.
Dopo un’ora, del re di quelle foreste non avevamo scorto alcuna traccia. La guida disse che a quel punto era meglio cambiare postazione. Ci allontanammo ancora di più dalla jeep, penetrando la foresta pluviale a passi lenti, strascicati. Non mi sentivo a mio agio, mi pareva di violare un posto sacro, interdetto all’uomo. Pensai che forse stavo facendo la cosa sbagliata, l’ennesima. Fotografare il leopardo, che idea. Probabilmente stupida, di certo presuntuosa. Non ero altro che un occidentale capriccioso che voleva fare la sua battuta di caccia: al posto del fucile avevo il teleobiettivo, ma la sostanza non cambiava. Stavo per dire alla guida di fermarsi, che volevo lasciar perdere e tornare indietro, quando lui si arrestò da sé e indicò un punto lontano davanti a noi, tra la boscaglia. Osservai e mi parve di non vedere nulla, poi notai che la vegetazione si muoveva e si apriva, come se al suo interno stesse avanzando qualcosa di grande e possente. Fu a quel punto che ricominciò a piovere, come se un gigantesco rubinetto sul mondo fosse stato aperto completamente, di colpo. La vegetazione si richiuse. Se là dietro c’era il leopardo, non lo scoprimmo mai. Ci affrettammo invece a tornare indietro. Quando arrivammo alla jeep, la pista sterrata si era già trasformata in un torrente di fango.
Salimmo a bordo e aspettammo che finisse. Ci vollero due ore. Quando smise di piovere, uscimmo e capimmo immediatamente che di lì non sarebbe stato più possibile muoversi. Per lo meno con la jeep. La guida imprecò nella sua lingua, e credo che in quel fiume di parole, più di quelle che aveva pronunciato nel corso dell’intera giornata, ci fossero anche parecchi insulti per me. Le alternative, mi spiegò quando si fu calmato, erano due. Aspettare i soccorsi in elicottero, che però, per uno come me, per nulla influente, non sarebbero arrivati subito, più probabilmente il giorno dopo: e infatti così gli dissero i soccorritori quando li contattò col walkie-talkie. Oppure avviarsi a piedi: da lì al primo centro abitato, mi spiegò, c’erano cinque ore di cammino. In pratica, si trattava di passare la notte sulla jeep, in mezzo alla giungla, oppure di addentrarvisi a piedi, in mezzo al fango, rischiando che il tanto atteso incontro col leopardo non si rivelasse così piacevole come avevo previsto. Fu proprio mentre riflettevamo indecisi sul da farsi che al nostro cospetto, come fossero fantasmi, apparvero dal fogliame cinque vedda.
Di età indecifrabile, erano scalzi ed erano nudi, salvo un piccolo pezzo di tessuto triangolare tenuto fermo da un laccio in vita. Avevano barbe e capelli lunghi, e ciascuno di loro brandiva un grosso arco. Guardai la guida preoccupato, ma lui mi fece cenno di stare tranquillo. Poi li salutò in singalese, e quelli gli risposero nella stessa lingua. Spiegò loro la nostra situazione, e quelli gli dissero che potevamo seguirli. Stanotte saremo loro ospiti, m’informò la guida. Ci accodammo e penetrammo nuovamente nel fitto della giungla.
Fine della terza puntata
La quarta verrà pubblicata il 18 luglio 2024
Ma non è giusto fermarsi sul più bello. OK attenderemo.