Gli occhi del leopardo (2)
Una storia che sa di fotogiornalismo, guerriglia e popoli della foresta
Seconda puntata di cinque
Seconda tappa: le Tigri
Il giorno seguente mi trasferii nel territorio dei tamil, nel nord del Paese. Il mio arrivo era stato minuziosamente preparato per il tramite di una ong occidentale di cui i guerriglieri si fidavano. Viaggiai a bordo di una jeep della ong, guidata da un londinese che rinunciò presto a fare conversazione, forse indignato dal mio inglese. Nonostante l’appoggio della ong, dovetti subire comunque una mezza dozzina di perquisizioni in altrettanti posti di blocco prima di arrivare a destinazione, una villetta al centro di una vastissima piana punteggiata di risaie, protetta da muretti tradizionali e numerosi soldati. Mi assegnarono una modesta abitazione dove, per mia fortuna, c’era un letto comodo. Stremato dal caldo e dall’umidità, vi crollai esanime e dormii per dodici ore di fila.
Fui bruscamente svegliato dal londinese la mattina dopo. Mi ricordò che le Tigri erano a mia disposizione solo per quel giorno, e che non mi conveniva sprecarlo standomene buttato sul materasso. Mi tirai su, presi la macchina fotografica e uscii. Mi fecero sedere a un grande tavolo nel giardino della villetta e, insieme a un caffè troppo zuccherato, mi offrirono delle crèpes di riso e latte di cocco, che mangiai di gusto. Tradotti per me dal londinese, i guerriglieri si presentarono. Erano cinque, quattro maschi e una femmina, tutti quanti in mimetica tigrata, tutti quanti col kalashnikov appoggiato sul tavolo, tutti quanti giovanissimi, poco più che ventenni. Ricoprendo ruoli apicali all’interno della milizia, erano loro che sovrintendevano a quella porzione di territorio, la meglio controllata dalle Tigri. Me lo avrebbero fatto visitare nel corso della giornata e poi, al rientro, avrei avuto l’onore di parlare col comandante in capo.
Quando non ci fu più nulla da dire, ossia quasi subito, partimmo. Mi fecero visitare alcuni centri abitati e mi spiegarono che il loro era un vero e proprio Stato, con polizia, tribunali, scuole, ospedali, persino banche. Ci tennero a mostrarmi che tutto funzionava, m’invitarono a fotografare ovunque. Notai effettivamente meno degrado rispetto a Colombo, ma si trattava di una cosa organizzata, e non potevo aspettarmi altro. Concludemmo il giro con la visita a un mausoleo dai colori sgargianti, che ai miei occhi, ma non ai loro, contrastavano con le centinaia di morti che vi erano commemorati, caduti in combattimento per la liberazione della patria tamil. Mi soffermai a lungo sulle fotografie dei defunti: la maggior parte non arrivava a vent’anni, e molti nemmeno a quindici.
Rispetto all’età media delle Tigri, il loro comandante in capo era un uomo anziano: aveva quarant’anni e un volto che, stranamente, col suo sorriso largo e la fronte alta, mi ricordò quello del Presidente dello Sri Lanka. Il ricordo si fece più nitido quando, per prima cosa, mi chiese se era mia intenzione fotografarlo. No, gli risposi: non facevo foto a gente in posa. Sorrise in modo enigmatico. Poi, senza darmi modo di chiedergli nulla, attaccò a parlare. Mi spiegò che la loro era una guerra di liberazione contro un nemico brutale e oppressivo: la maggioranza singalese che, subito dopo l’indipendenza dello Sri Lanka, aveva iniziato a discriminare la minoranza tamil, a ghettizzarli, a trattarli come fossero dei selvaggi, delle bestie. Lottavano per l’autodeterminazione del loro popolo, disse, e il loro scopo principale era la costituzione di uno Stato tamil libero e indipendente. Erano laici, si opponevano alle caste e alle disuguaglianze sociali e di genere, volevano una società egualitaria. Ma non erano comunisti, si affrettò a spiegare: l’economia, nel venturo Stato tamil, sarebbe rimasta libera, di mercato. A quel punto, dopo aver parlato per quasi mezzora, tacque e mi fissò. Io spostai lo sguardo sul londinese e lui mi spiegò che ora potevo parlare, fare domande. Chiesi se era vero che obbligavano i ragazzini a fare i soldati. Il londinese fece una faccia contrariata ed esitò a tradurre. Ripetei la domanda, e a quel punto la tradusse. Il comandante sorrise. Era falso, mi disse: erano i ragazzini che si presentavano spontaneamente, erano loro che volevano combattere.
Quella sera, durante una parca cena a base di riso e tè alla tavolata comune in giardino, ebbi una conversazione con una miliziana di quattordici anni. Avevo notato che la sua mimetica era diversa da quella degli altri combattenti: non era tigrata, ma tutta nera. L’avevo avvicinata per chiederle il motivo. Era una delle poche Tigri che parlava inglese e quindi non ebbi bisogno del londinese per farmi capire. Mi raccontò che era stata lei ad arruolarsi. Non aveva avuto scelta. Le truppe governative, l’anno prima, avevano bruciato casa sua e trucidato tutta la sua famiglia. Cos’altro avrebbe potuto fare? Diventare una Tigre Nera, mi disse, era stata la sola cosa pensabile. Le domandai cosa fosse una Tigre Nera. Un’aspirante kamikaze, mi spiegò. Presto sarebbe venuto il suo turno, e lei era pronta a morire per la patria. La guardai negli occhi, due occhi scuri e grandi, fondi come un pozzo, e per la seconda volta durante quel viaggio rividi mia figlia. Rabbrividii. Adesso doveva andare, mi disse, iniziava il suo turno di guardia. Si appostò a una ventina di metri dalla tavola, sotto un lampione, col kalashnikov stretto in pugno. E fu in quella posizione marziale, tanto contrastante con il suo viso d’angelo, che la fotografai. Ed ebbi così la miglior immagine della seconda tappa del mio viaggio.
Fine della seconda puntata
La terza verrà pubblicata l’11 luglio 2024
Povero popolo Tamil, quanta discriminazione ha subito...
Interesse sempre vivo. Una settimana è lunga comunque per avere il seguito.