Uomini e no, coi tacchetti
Una storia che sa di calcio anni Trenta, tra conformismo e ribellione
Lo chiamavano “il Balilla”. Ma non era fascista, lui. Non pensava si potesse essere altro, semplicemente.
Figlio d’una fruttivendola e d’un padre destinato a morire nella Grande Guerra, nacque a Milano nel 1910, così che quando il Duce fece il suo colpo di Stato, lui, Giuseppe “Peppin” Meazza, di anni ne aveva appena dodici. E sedici quando fu istituita l’Opera Nazionale Balilla, per fascistizzare i giovani italiani dai sei ai diciotto anni.
A quel tempo era già un calciatore, il Peppin, in forza nelle giovanili del Football Club Internazionale (in procinto di diventare Società Sportiva Ambrosiana, perché al regime quella parola, internazionale, non piaceva per niente). In forza si fa per dire, perché era parecchio gracile, il Peppin. Mica ce l’aveva, il fisico da calciatore. Solo che aveva capito alla svelta che uno come lui, figlio povero di madre vedova, o calciava la palla o faceva la fame. E, quanto a calciarla, sapeva farlo in modo davvero strabiliante, anche con quelle spalle cadenti e quelle ginocchia vaccine.
Così che, nel ruolo di attaccante, esordì in prima squadra a soli diciassette anni, e i compagni iniziarono a chiamarlo in quel modo: il Balilla. Anche se non era fascista, lui. Come non erano fascisti milioni di italiani. Che non pensavano si potesse essere altro, semplicemente.
Lo chiamavano “der Papierene”, “Cartavelina”. Perché pure lui aveva un fisico gracile, anche più del Peppin Meazza, rispetto al quale era nato, se possibile, persino più povero.
Figlio d’una lavandaia e d’un padre destinato anch’egli a morire nella Grande Guerra, Matthias Sindelar vide la luce nel 1903 in una delle innumerevoli periferie dell’impero asburgico, e ancora molto piccolo si trasferì a Vienna, dove i genitori erano andati a cercare fortuna, trovando però solo altra miseria.
Pure Matthias, come il Peppin, trovò nel calcio il modo di riscattarsi. Da piccolo ci giocò per strada a piedi nudi, per non rovinare l’unico paio di scarpe che possedeva. Poi, dopo la morte del padre, continuò a farlo solo nel tempo libero, perché a quattordici anni il lavoro l’aveva già chiamato, in officina. Tuttavia, nonostante il fisico poco sviluppato, tipico di chi non mangia abbastanza, Matthias il calcio l’aveva nel sangue, e niente, nemmeno la fame, men che meno la fame, avrebbe potuto tenerlo lontano dal campo di gioco.
Quindicenne, mentre l’impero si dissolveva per fare posto alla repubblica, Matthias entrò nelle giovanili di una delle formazioni di Vienna, l’Herta, e pure lui, a colpi di dribbling, scalò velocemente le gerarchie ed esordì in prima squadra giovanissimo, da attaccante, a diciotto anni. Uno in più del Peppin. Balilla l’uno, Cartavelina l’altro. Entrambi nati poveri, ma capaci di fare gol.
Nel decennio dei Trenta, che consegnò l’Europa al sonno della ragione e trasformò definitivamente il calcio in quello sport di massa che è ancora oggi, il Balilla e Cartavelina diventarono i migliori calciatori del continente.
Il Peppin esordì in nazionale proprio nel 1930, quando Matthias giocava nella sua già da quattro anni. Due nazionali tra le più forti al mondo, le loro, a quell’epoca: l’Italia e l’Austria. La squadra del Duce e quella delle meraviglie, il Wunderteam. Destinate inevitabilmente a scontrarsi per stabilire chi doveva finire sul tetto del mondo. Accadde nel 1934, durante i mondiali di calcio organizzati proprio in Italia dal regime fascista.
Lo scontro avvenne in semifinale. In campo, ovviamente, scesero sia il Balilla che Cartavelina. Ad arbitrare fu mandato un oscuro svedese, comprato dagli uomini del Duce per favorire la nazionale italiana. L’oscuro svedese non fischiò un’evidente carica sul portiere commessa proprio dal Peppin al diciannovesimo minuto, che permise al compagno di squadra Guaita di segnare l’unico gol della partita. E soprattutto non fischiò le decine e decine di fallacci che i difensori in maglia azzurra riservarono a Matthias, riducendolo all’impotenza.
Quel Mondiale finì così, col Balilla sul tetto del mondo, in mano la coppa comprata dal Duce, e Cartavelina su un letto d’ospedale, dov’era stato ricoverato dopo le botte prese in campo.
La rivincita non ci fu mai. Al mondiale successivo, quello del 1938, disputato in Francia, l’Austria non poté prendere parte. Pochi mesi prima, infatti, era stata annessa alla Germania nazista e aveva smesso di esistere, come nazione e come squadra di calcio.
A quel tempo Cartavelina aveva trentacinque anni, ma in nazionale giocava ancora, e ancora dava la paga a molti, quasi tutti. Come fece in occasione della sua ultima partita con la maglia austriaca, disputata il 3 aprile 1938 contro la Germania.
Fu ribattezzata, con molta retorica, partita della riunificazione, per celebrare l’annessione dell’Austria al Reich hitleriano. I padroni del calcio e della politica avevano stabilito che la selezione austriaca avrebbe avuto la possibilità di scendere in campo per l’ultima volta con la propria casacca, ma in cambio avrebbe dovuto perdere la partita. Cartavelina, però, non fu d’accordo.
Stordendo di dribbling i difensori tedeschi, Matthias giocò una delle sue migliori partite di sempre e trascinò l’Austria alla vittoria, segnando il gol decisivo. A fine partita, poi, si rifiutò di rivolgere il saluto romano ai gerarchi nazisti, seduti in tribuna a schiumare rabbia e meditare vendetta.
Neppure per un istante Cartavelina pensò mai di giocare con la maglia della Germania, come pure gli fu proposto, al mondiale che si sarebbe tenuto di lì a poco in Francia. Dove invece giocò e si ricoprì di gloria, ancora una volta, il Peppin.
A differenza di Cartavelina, lui il saluto romano lo fece, al pari di tutti i compagni di squadra, rivolgendolo agli esuli antifascisti che, il 5 giugno 1938 a Marsiglia, durante l’ottavo di finale che oppose l’Italia alla Norvegia, riempirono di fischi i calciatori che giocavano per il Duce. Poi, in occasione del quarto di finale contro la Francia, il Balilla scese in campo indossando, al pari di tutti i compagni di squadra, la maglia nera che i gerarchi fascisti avevano imposto con un colpo di mano, in sostituzione di quella azzurra. E il giorno della semifinale contro il Brasile non si fece remore a tirare il calcio di rigore inesistente fischiato dall’ennesimo arbitro compiacente, portando l’Italia alla finale poi vinta contro l’Ungheria, di nuovo sul tetto del mondo.
Con il premio di ottomila lire ricevuto per la conquista della coppa, il Peppin comprò un’automobile Fiat, denominata, guarda caso, Balilla anch’essa. E a bordo di quella varcò definitivamente le porte dell’olimpo del calcio. La sua fama sopravvisse al fascismo che lo aveva celebrato e reso grande, come pure alla sua stessa morte, avvenuta nel 1979. Lo stadio di Milano, oggi, porta il suo nome, e Giuseppe Meazza, detto il Balilla, è ancora ricordato come uno dei migliori calciatori di tutti i tempi.
Tutt’altra fu la fine di Cartavelina. Il 23 gennaio 1939, quando ancora era un calciatore che militava nell’Austria Vienna, fu trovato morto nel suo appartamento. Intossicazione da monossido di carbonio, fu il referto. Suicidio, si disse. Le autorità non indagarono, il corpo fu seppellito rapidamente e i documenti relativi alla sua morte divennero ben presto introvabili. Oggi anche Matthias Sindelar, detto Cartavelina, è ricordato come uno dei migliori calciatori di tutti i tempi, al pari del Peppin. Ma il suo ricordo è arrivato sino a noi percorrendo una strada diversa. Perché lui, oltre che un calciatore, è stato anche un uomo.1
Comunicazione di servizio: siccome alcuni di voi ci hanno detto che i nostri dispacci hanno effetto energizzante, ci pare più consono che da oggi li riceviate ogni giovedì mattina a colazione anziché il sabato a pranzo. A giovedì prossimo!