Oggetti fuori posto (2)
Una storia che sa di interazioni fra minuscole particelle elementari
Seconda e ultima puntata
Andò avanti così per altri tre giorni, al termine dei quali mi ritrovai sul punto di impazzire sul serio.
Continuai a trovare fuori posto innanzitutto gli oggetti che lo erano già stati il primo giorno: saponetta, sigarette, croccantini, pasta, carta igienica. A quelli se ne aggiunsero altri. Il portatile non lo trovai mai sulla scrivania dove lo lasciavo, ma una volta in camera da letto, una in cucina e un’altra in bagno. Poi sparì la ciotola di Calzetta, che trovai nella credenza. Poi cambiò di posto il mio asciugamano, e ovviamente me ne accorsi solo quando uscii dalla doccia, dove mi ero buttato sperando di rinsavire e uscire da quel fottuto incubo: grondando acqua per tutta casa, lo cercai nei posti più assurdi e lo trovai nel mio armadio. Poi la lametta da barba, che trovai in cucina, nel cassetto delle posate. A darmi più fastidio fu la sparizione del vino: non trovai più la bottiglia in frigo, ma nel ripostiglio, in mezzo alle cose di Calzetta.
Dopo avergliene parlato il primo giorno, il secondo e il terzo a Luisa non dissi nulla. Ero certo che non fosse lei la responsabile di quelle sparizioni, e che a parlargliene le avrei solo dato una preoccupazione in più. Facendo uno sforzo atroce, mi tenni tutto dentro, con la consapevolezza crescente che il problema dovevo essere io.
Ero malato, evidentemente. Gravemente malato. Al punto da spostare quegli oggetti in posti senza senso, inconsapevolmente e senza ricordarmene. Probabilmente cadevo in uno stato di trance. E non potevo nemmeno dare la colpa alle canne, visto che non me ne facevo da anni. O al vino, perché un paio di bicchieri al giorno, quelli cui ormai da tempo mi limitavo, non potevano ridurmi ai gesti insensati e ai vuoti di memoria del mio periodo alcolico, ormai archiviato da un pezzo. Però, per qualche ragione, quei fatti accadevano.
Dovevo per forza essere io il responsabile, mi dissi, altrimenti la spiegazione non poteva essere che un’altra... Se non ero io, allora... Mi sforzai più volte, in quei giorni, di scacciare quel pensiero terrorizzante, che una parte di me, la più debole, riteneva il più vicino al vero, ma non ci riuscii. Quel pensiero continuava a tornare, e a tormentarmi. Così, il pomeriggio del quarto giorno mi sedetti sul divano e attesi impaziente il rientro di Luisa, in penombra, tremante e angosciato. Non potevo più nasconderle la situazione. Dovevo confessarmi.
- Amore, ciao... - disse sorpresa quando mi vide. - Ma cosa ci fai lì? Perché non sei di sopra a scrivere?
Inutile dire che, naturalmente, durante quei quattro giorni la stesura del mio romanzo non aveva fatto un solo passo avanti. Il monitor era rimasto inesorabilmente bianco, immacolato, accecante.
- Devo parlarti - dissi in tono grave.
- Amore, cosa c’è? Hai una faccia...
- Siediti.
Preoccupata, Luisa obbedì.
Le raccontai tutti i fatti, di getto. Ogni oggetto che aveva cambiato di posto, nei minimi dettagli.
Al termine del resoconto, il volto di Luisa era scuro.
- E perché non me ne hai parlato prima? - disse. - Perché hai aspettato finora?
- Perché sapevo che tu non c’entravi niente, e non volevo farti preoccupare. Speravo che tutto finisse da sé, com’era iniziato. Ma non è successo. Così ho deciso di farmi vedere: ho preso appuntamento dal neurologo, ci vado domani. Devo curarmi, Luisa: sono malato. O per lo meno spero di esserlo...
Sgranò gli occhi.
- Come sarebbe che speri di esserlo?
- Beh, ecco... Se così non fosse... se io non fossi malato... vorrebbe dire che...
Non ebbi la forza di finire la frase.
- Vorrebbe dire cosa, amore? Parla!
- Vorrebbe dire che qui... che in questa casa...
Mi fermai di nuovo.
- Che in questa casa cosa? - m’incalzò Luisa.
- Che in questa casa... c’è qualcuno...
- Qualcuno?
Chiusi gli occhi, cercando il coraggio per pronunciare finalmente la parola che mancava.
- Fantasmi - dissi infine, con un singulto.
Luisa mi guardò attonita. Naturalmente lei aveva letto i miei primi romanzi e sapeva che erano zeppi di fantasmi, ma non le avevo mai detto che, per molto tempo, ai fantasmi avevo anche creduto.
- Fantasmi? - domandò.
Abbassai lo sguardo. Evidentemente ci credevo ancora. E me ne vergognavo.
- Credi davvero - disse Luisa - che qui dentro ci siano i fantasmi?
Tornai a guardarla.
- Io... ecco, vedi...
Per un attimo pensai di mentirle. Di dirle di no, che stavo delirando, che quel delirio era parte di quella stessa malattia che dovevo curare e che era la spiegazione di tutto, e che i fantasmi non c’entravano nulla. Ma poi mi dissi che mentire non aveva senso. Né a lei, né a me.
- Sì - ammisi. - Una parte di me ci crede. Ho sempre creduto ai fantasmi, anche se ormai pensavo di non crederci più.
Fu a quel punto che Luisa perse l’espressione basita e di colpo sorrise raggiante.
- Amore, ce l’hai fatta! - mi disse stringendomi a sé e baciandomi.
Quella reazione priva di senso mi lasciò ammutolito per qualche istante.
- Luisa, ma che stai dicendo? - le domandai quando recuperai la parola. - Ce l’ho fatta? A fare cosa?
- A sbloccarti! Ha funzionato!
- Sbloccarmi? Funzionato? Ma cosa, cristosanto?
Luisa tornò a sedersi e mi guardò per un lungo istante, prima di tornare a parlare.
- A spostare gli oggetti, in questi giorni, sono stata io - disse infine.
Sbarrai gli occhi.
- Cosa?
- Perdonami, amore. So che per te è stata una tortura, ma dovevo farlo. Eri messo troppo male. Era da troppo tempo che ti vedevo nervoso, perso, assente. Il tuo momento no con la scrittura ti stava devastando. Eri sull’orlo della depressione. Dovevo aiutarti. E così ho chiesto consiglio a Clara.
Clara era la migliore amica di Luisa. Una psicologa.
- Lei mi ha spiegato che, in situazioni come la tua, spesso basta un forte shock per sbloccarsi, se lo shock, in qualche modo, conduce il paziente a opporsi alla fonte del blocco.
Ero stordito e confuso.
- Spiegati meglio, Luisa, non capisco...
- La fonte del blocco, per te, era l’incapacità di spingerti oltre la realtà. Già prima di scoprire la fisica quantistica avevi deciso di rinunciare a questa tua dote, ritenendola ormai imbarazzante. Pensavi di dover crescere e diventare uno scrittore diverso. Uno scrittore diverso e… fasullo.
Luisa fece una pausa, ma io non ribattei, perché sapevo che aveva ragione.
- Poi - riprese - hai scoperto la fisica quantistica e ti sei convinto che, oltre a essere imbarazzante, quella dote fosse anche inutile, pensando che la realtà fosse di per sé fin troppo incredibile perché avesse ancora senso spingersi oltre e crearne una nuova con la fantasia. Me l’hai spiegato tu stesso, no? Tornare al weird, ma senza il soprannaturale: era quello che volevi fare, giusto?
- Sì... - dissi. - Ma questo cosa c’entra?
- C’entra, perché, a forza di respingere il soprannaturale, sei diventato incapace di pensarlo. E se uno scrittore che calcava le orme di Poe e Lovecraft, come hai sempre fatto tu prima di snaturarti, non è più capace di spingersi oltre la realtà, quello è uno scrittore finito.
Luisa a quel punto tacque, dandomi il tempo di pensarci sopra.
- Sì, hai ragione, è proprio così - convenni infine, affranto. - Non l’avevo mai razionalizzato, ma dev’essere esattamente quello che mi è successo...
- Fino a oggi. Ma ora, grazie alla messa in scena che ho organizzato, ti sei sbloccato.
La guardai e in quell’attimo capii.
- Perché sono tornato a credere ai fantasmi - dissi. - Perché ho pensato che a spostare gli oggetti fossero loro...
- Esatto - disse lei. - Significa che ora sei finalmente tornato te stesso. Ora sei pronto a ridiventare lo scrittore autentico che fino a un certo punto eri stato, di nuovo capace di spingersi oltre la realtà. Lo scrittore che adoravo. Che il pubblico adorava.
La guardai commosso, colmo di gratitudine, per un lungo istante.
Poi ci abbracciammo forte.
Poi ci baciammo.
Poi ci buttammo sul divano.
- Ti amo - le dissi.
- Anch’io - mi rispose.
E iniziammo a spogliarci.
Proprio quando eravamo ormai al dunque, sentimmo la porta del salotto cigolare.
Ci voltammo.
La porta si stava aprendo, lentamente.
Impallidimmo entrambi e ci stringemmo spaventati.
Fu a quel punto che udimmo il miagolio e vedemmo spuntare Calzetta. Un gatto che di certo non sapeva spostare gli oggetti, ma sapeva aprire le porte.
Tirammo entrambi un sospiro di sollievo, ridendo fino a farci venire le lacrime agli occhi.
E poi tornammo a fare l’amore.
Da allora ho deciso che non scriverò più il grande romanzo quantistico. La fisica quantistica è troppo esatta, e troppo affascinante, per essere rovinata da uno come me, scribacchino del soprannaturale.
Ho cestinato quel soggetto e ho deciso di dedicarmi a qualcosa di assai più modesto, ma anche più vicino alle mie corde. E ci sono riuscito, se è vero che a questo racconto, proprio in questo istante, sto mettendo la parola fine.
Viva il weird e il soprannaturale!
quasi quasi ci credevo anch'io ai fantasmi.