Oggetti fuori posto (1)
Una storia che sa di interazioni fra minuscole particelle elementari
Prima puntata di due
Il primo oggetto che cambiò di posto fu la saponetta. Mi alzai, entrai in bagno, pisciai, tirai l’acqua, feci per lavarmi le mani e la saponetta non c’era. Con occhi ancora assonnati, mi guardai attorno. Ed eccola lì, nella doccia. Con un certo disappunto, aprii la porta a vetri, recuperai la saponetta, mi ci lavai e la rimisi al suo posto, vicino al lavandino.
Ho sempre ritenuto fondamentale che gli oggetti vengano rimessi al loro posto, dopo che li si usa. Mi è sempre parsa una forma di civiltà. Ma più probabilmente è sempre stata solo una forma di mania.
- Rimetti al suo posto la saponetta, per favore, quando la usi... - dissi a Luisa, mia moglie, quando scese a fare colazione. Io stavo ormai finendo la mia.
- La saponetta? - mi disse lei, sbadigliando. - Io non l’ho mica spostata...
- Era nella doccia.
- Non ce l’ho messa io...
- E allora chi? Calzetta?
Calzetta era il nostro gatto.
- Magari sei stato tu, sovrappensiero...
- Sarà...
Luisa si preparò il caffè, poi si sedette. Io mi alzai.
- Vado a scrivere - dissi.
- Buon lavoro.
Entrai nello studio, mi misi alla scrivania, accesi il portatile e per prima cosa controllai i social. Il mio post del giorno prima, la segnalazione di una recensione di second’ordine ricevuta dal mio ultimo romanzo, aveva racimolato lo straccio di tre “mi piace” su Facebook e undici su Instagram. Da un po’ di tempo andava così: nessuno mi cagava. Fanculo anche ai like. Era da parecchio che accarezzavo l’idea di levarmi dalle palle. Di chiudere tutti i fottuti profili. Ma poi non lo facevo mai.
Aprii il file del mio romanzo, quello nuovo, di fatto provvisto solo di scaletta, provvisoria per non dire incerta. E per il resto ancora tutto da scrivere, salvo un primo capitolo che più lo rileggevo, più mi pareva mal fatto. Sbagliato, persino. E io non potevo più permettermi di sbagliare. Le cose, con quel nuovo romanzo, dovevano andare molto meglio di com’erano andate con l’ultimo, che aveva venduto la metà del precedente, a sua volta un mezzo fallimento.
Dopo i successi dei miei primi romanzi, ottenuti a colpi di puro genere, un peculiare weird a metà strada fra horror e fantascienza, era da tempo che la fortuna mi aveva voltato le spalle. In pratica da quando, cinque anni prima, avevo fatto il grande passo, mandando a cagare la redazione dove avevo buttato vent’anni della mia vita a fingere di fare il giornalista (come se davvero fosse ancora possibile, al giorno d’oggi, fare il giornalista). La decisione di licenziarmi l’avevo presa per dedicarmi soltanto alla narrativa, campo nel quale mi ero sempre sentito infinitamente più libero, oltre che più apprezzato, per lo meno fino a un certo momento. Ora invece mi pareva che anche i romanzi fossero diventati una gabbia, e che pure lì ogni sforzo innovativo, ogni guizzo autoriale, fosse destinato soltanto a tagliarmi le gambe. Com’era accaduto quando, peccando di superbia una volta di più, avevo abbandonato, insieme al mio lavoro da giornalista, anche il genere weird e tutto il suo imbarazzante armamentario soprannaturale, per virare verso romanzi senza etichetta: letteratura e basta, vita e basta, realtà e basta. Stroncature e fughe di lettori: questo avevo raccolto, e nient’altro.
Col nuovo romanzo, però, sarei tornato indietro. Sarei tornato al genere. A quel weird che, a dispetto dei successi che mi aveva portato, a un certo punto mi ero sentito cucito addosso come un vestito stretto, soffocante. A dire il vero, non sarei mai tornato a indossarlo se nel frattempo non mi fossi innamorato della fisica quantistica. Una materia che mi aveva sempre attratto e che a un certo punto mi ero finalmente messo a studiare con fatica, ma anche notevole soddisfazione. Una materia che alla fine ero riuscito a capire, o almeno a intuire, nel suo concetto fondamentale, affascinante, rivoluzionario: tutti quelli che siamo abituati a chiamare oggetti, o “cose”, non sono altro che casuali e momentanee aggregazioni di minuscole particelle elementari. La realtà non è fatta di oggetti materiali, a sé stanti e dati una volta per tutte, ma solo di interazioni. La realtà fluisce lieve, transitoria e rarefatta attorno a noi. O meglio, noi - aggregazioni di minuscole particelle elementari al pari di tutto il resto - fluiamo lievi, transitori e rarefatti nella realtà. Come fantasmi, ma senza esserlo. Migliori dei fantasmi, perché reali.
Mi era sembrato uno spunto formidabile per tornare a fare narrativa di genere senza più ricorrere al soprannaturale, perché mi sarebbe bastato usare la realtà quantistica per risultare weird, straniante. Avrei scritto un romanzo imperniato su questa grandiosa teoria scientifica, ormai centenaria e pienamente acquisita in campo tecnologico, ma violentemente controintuitiva per la maggior parte delle persone, capace di demolire certezze assolute e universali, e quindi di creare disagio. Proprio come la migliore tradizione weird voleva.
Solo che poi, all’atto pratico, mi ero reso conto che declinare la fisica quantistica in ambito narrativo era tutt’altro che semplice, e non a caso non esisteva alcun esempio di opera letteraria che lo avesse mai fatto, per lo meno in modo degno. Il che, inizialmente, mi aveva persino galvanizzato: il primo sarei stato io. Il grande romanzo quantistico sarebbe stato scritto da me. La solita superbia del cazzo.
- Amore, io vado!
La voce di Luisa, dal piano di sotto, ebbe l’effetto di una scossa.
- Va bene… - urlai di rimando.
- Ricordati di dare da mangiare a Calzetta!
- Va bene…
Che stronzo, pensai un secondo dopo aver sentito la porta d’ingresso chiudersi alle spalle di mia moglie. Non ero nemmeno sceso a darle un bacio. Luisa si meritava molto più del mio nervosismo scostante e del mio broncio perenne di quelle settimane. O erano mesi? Forse anni.
Era una santa, Luisa. Aveva accettato il mio licenziamento senza batter ciglio. Anzi, vedendomi titubante, mi aveva spinto lei a prendere la decisione. Saremmo passati da due stipendi a uno, il suo, da insegnante e quindi magro. Ma non avevamo figli, né mutui. E poi io avrei comunque guadagnato con la scrittura, mi aveva detto per incoraggiarmi, magari più di prima.
Sì, come no: a colpi di un fallimento dopo l’altro. La sola cosa che mi era riuscita era stata diventare, di fatto, il suo mantenuto. E farla rinunciare all’idea di chiedere un part-time per viaggiare con me attorno al mondo, come ci eravamo ripromessi di fare al più presto, perché andavamo per i cinquanta e certe cose quando si è vecchi non si fanno più, anche se è sempre alla terza età che la gente rimanda tutto, nella speranza di un futuro migliore che poi non arriva mai.
Luisa avrebbe potuto rinfacciarmi duramente quelle rinunce e altro ancora, ma non lo faceva. E io non mi degnavo di ringraziarla nemmeno con un sorriso ogni tanto, che non costava niente. Un vero stronzo.
Rilessi per l’ennesima volta il capitolo già scritto e ne rimasi più disgustato del solito: linguaggio pretenzioso, prosa avvitata, ritmo inesistente. Cassai tutto quanto premendo con rabbia il tasto “canc”, finché il bianco del monitor non arrivò ad abbagliarmi. Chiusi il portatile con uno scatto e mi alzai. Avevo bisogno di una sigaretta.
Raggiunsi la giacca e infilai la mano nella tasca interna alla ricerca del pacchetto. Non c’era. Guardai nelle altre tasche. Niente. Sibilai un “porca troia” e mi misi a cercarlo. La notte prima avevo fumato l’ultima sigaretta lì, nel mio studio. Poi, con gli occhi infiammati per le tante ore infruttuose passate al computer, ero andato a letto, dove Luisa dormiva già da un pezzo. Prima però avevo rimesso il pacchetto al suo posto, nella tasca interna della giacca, come facevo sempre. Perché adesso non era lì? Luisa stavolta non poteva essere stata, perché lei non fumava e odiava anche solo toccarle, le sigarette, che erano uno dei pochi motivi di contrasto fra noi due. Che fosse davvero Calzetta il responsabile?
Proprio in quell’attimo mi apparve dinanzi proprio lui, miagolante. Aveva fame.
- Sì, va bene, va bene. Arrivo...
Mi precedette lungo le scale con la coda dritta, baldanzoso come sempre quando si trattava di ricevere la sua razione di cibo.
Entrai nel ripostiglio dopo di lui, pronto a riempirgli la ciotola di croccantini. Ma non li trovai.
Imprecai.
Cosa cazzo stava succedendo?
Perché quel giorno nulla era al suo posto?
Il gatto continuava a miagolare sempre più stridulo, con gli occhi sbarrati, senza capire il perché di quell’attesa.
Furioso, uscii dal ripostiglio, entrai in cucina, raggiunsi la dispensa, afferrai una scatoletta di tonno, la aprii e andai a versarlo tutto quanto nella ciotola di Calzetta, senza curarmi della raccomandazione del veterinario, che Luisa seguiva pedissequamente, di non dare al gatto il nostro cibo. Calzetta divorò il tonno di gusto, facendo le fusa.
Non avevo voglia di tornare nello studio e mi buttai sul divano, esausto. Fu a quel punto che vidi il pacchetto di sigarette. Era lì, davanti a me, sul tavolino del salotto. Possibile che la sera prima fossi stato così stanco da non ricordarmi di essere sceso a fumare e di averlo lasciato lì? Fanculo, pensai, non importava. Ne accesi una e aspirai il fumo avidamente, con lo stesso gusto con cui Calzetta aveva divorato il tonno.
Guardai le volute librarsi fino al soffitto, e ripensai all’evanescenza della realtà descritta dalla fisica quantistica. Una realtà in cui a non esistere, oltre alle cose, è anche l’Io. Una realtà in cui, come non esiste un mondo fisico, non esiste nemmeno un mondo mentale, e i fenomeni psichici, come quelli fisici, non sono altro che fenomeni naturali generati dalle loro interazioni. A quel punto, provando una leggera vertigine, chiusi gli occhi e mi addormentai.
Mi risvegliai sentendo odore di bruciato. Avevo lasciato accesa la sigaretta, che mentre dormivo mi era caduta di mano e aveva sbraciato sul divano. Mi lasciai andare a nuove imprecazioni. Bravo, proprio bravo. Non solo me ne restavo tutto il giorno a combinare un cazzo, senza riuscire a scrivere una sola riga decente, ma mi mettevo pure a fare danni, adesso. Luisa si sarebbe incazzata, stavolta. E a ragione.
Diedi una pulita alla bell’e meglio, mettendo una pezza che alla fine mi parve peggiore del buco. Sospirai affranto e guardai l’orologio. Avevo dormito parecchio ed era già ora di pranzo. Del resto, l’idea di tornare al computer mi nauseava. Così, visto che avevo anche una certa fame, decisi di mangiare.
Avrei risolto col solito piatto estivo, semplice ma gustoso: orecchiette con pomodorini e basilico dell’orto. Solo che la pasta, nella dispensa, non c’era. Guardai su tutti gli scaffali. Niente, nemmeno un pacco. Eppure ero certo che lì dentro ce ne fossero almeno tre o quattro. In compenso, vi trovai i croccantini. Erano sullo scaffale più alto. Perché cazzo li aveva messi lì, Luisa?
Mi sentivo sempre più stranito. La fame era già passata. Lasciai perdere la pasta. Aprii una scatoletta di tonno anche per me e mi accontentai di quella. Accompagnandola con due bei bicchieroni di vino bianco, che ebbero il provvidenziale effetto di farmi passare di colpo tutto il nervosismo.
Finito il parco pasto, mi alzai da tavola, rassettai velocemente e poi tornai sul divano, piacevolmente sbronzo. In quello stato, pensai, forse avrei potuto scrivere qualcosa di interessante. Dovevo solo riuscire ad alzarmi e rimettermi al computer. Invece mi addormentai nel giro di pochi secondi.
Fui svegliato dal miagolio di Calzetta. Era già pomeriggio inoltrato e lui voleva mangiare di nuovo. Era senza fondo, quel gatto. Gli misi un po’ di croccantini nella ciotola e tornai di sopra.
L’ispirazione di qualche ora prima era già svanita insieme alla sbronza. S’era fatto avanti, invece, il bisogno di cagare. Guadagnai il bagno e mi sedetti sul water, mettendomi a leggere con tutta calma il mio manuale di fisica quantistica, confidando che con quello l’ispirazione tornasse. Ma non accadde. Tornarono invece a sparire gli oggetti. A mancare, stavolta, era la carta igienica. Non era un inedito, quello. Spesso Luisa dimenticava di prendere il rotolo nuovo, quando finiva il vecchio. Il punto era che a me pareva di ricordare che, quella mattina, il rotolo fosse ancora al suo inizio. Non imprecai nemmeno, stavolta, rassegnato a quella sequenza assurda di sparizioni come al mio destino di scrittore fallito. Mi pulii alla bell’e meglio, e anche stavolta la pezza fu peggiore del buco.
Quando stavo ormai lasciando il bagno, notai che la carta igienica era sulla mensola sopra lo specchio, e pareva fissarmi beffarda. Pensai sconsolato che la cosa migliore da fare, quel giorno, era dormire. Ma avevo già dormito fin troppo, e non avevo più sonno.
- Amore, sono tornata!
Da tempo non ero così felice di udire la voce di Luisa. Avevo bisogno di parlare urgentemente con qualcuno, altrimenti avrei rischiato di impazzire.
Le raccontai tutto quanto e lei, incredula, mi disse che no, non aveva spostato niente, né le sigarette, né i croccantini, né la pasta, né la carta igienica.
- Allora abbiamo un gatto che fa gli scherzi - dissi, ma lei non sorrise alla battuta.
Fine della prima puntata
La seconda verrà pubblicata l’11 maggio 2023
Poltergeist.
Per me è stato proprio il gatto...