L'algoritmo e lo scorpione (2)
Una storia che sa di testicoli sudati e banconote da 500 euro
Seconda e ultima puntata
Gallarate. Reception del residence “Sergio Luiz”. Un posto squallido e ridicolo che però poco prima, mentre vagava in auto senza meta, gli è apparso come un’oasi nel deserto di asfalto e cemento. L'uomo che dietro il banco gli chiede i documenti. Lui che gli getta addosso la carta d'identità e chiede un appartamento. L'uomo che s'incazza e alza la voce. Lui che estrae una carta di credito e urla, ancora più forte, che vuole un appartamento in quel residence dal nome assurdo, e vuole quello più costoso. L'uomo che gli strappa di mano la tessera dorata e ringhia meno forte. Lui che, finalmente, può andare verso la dependance che gli hanno assegnato, la numero tre. Lui che apre la porta e non sente nemmeno l'odore di ammoniaca, ma si dirige al banco frigo e si fa una vodka d'un fiato. Poi una seconda. Infine una terza. Lui che torna a percepire il calore più forte di prima, si spoglia e si butta nell'idromassaggio, facendo scorrere l'acqua fredda sul suo corpo.
A quel punto, temprato dal getto, ripensa a quando, un anno prima, aveva vinto per la quarta volta al tavolo del Francese. Il quale gli aveva sorriso e gli aveva comunicato che, per cena, lui e la sua fidanzata sarebbero stati graditi ospiti in un ristorante di lusso di sua proprietà, appena al di là del confine svizzero. E allora lui, il ragazzo che aveva sbancato il black-jack, aveva cinto il fianco della sua ragazza, una deliziosa moretta dal capello corto, e le aveva detto che al suo fianco sarebbe arrivata in cima al mondo. E lei, di risposta, lo aveva baciato con dolcezza.
Ricordi lontani, ormai. Immerso fino al collo in quello che è divenuto il brodo primordiale di una Jacuzzi di periferia coi rubinetti consunti e il motore scarico, cerca di razionalizzare la situazione. Del resto, è quello che gli riesce meglio.
Lui, il fenomeno della matematica finanziaria. Il trentenne che in pochissimi anni di lavoro per la “Bull&Bear” di Lugano ha cominciato a toccare la grana senza paura di consumare le banconote. Lui che lo sapeva già quando era all'università di avere una marcia in più nel costruire algoritmi e derivati. Lui che li capisce al volo e si esalta a renderli sempre più complessi. Gli altri che non ne capiscono un cazzo, ma ai quali basta incassare. Connubio perfetto. Numeri e biglietti da 500 euro. Come se piovesse, sul Ticino della finanza creativa.
Deve fare mente locale, ora, per non annegare nella disperazione. Elementi. Numeri. Punti. Solo questo. Nessuno spazio al resto, altrimenti esploderà ancora il dolore della gelosia. Chiude gli occhi e si lascia scivolare nella Jacuzzi, concentrato soltanto sui dati di fatto.
Punto primo: la figa. Jeanette è una figa pazzesca. Capelli corti, neri, pelle bianco latte. Si è da poco laureata in architettura al Politecnico. È la sua ragazza da quattro anni. E lui ne va pazzo.
Punto secondo: il boss. Il Francese è un melting-pot post moderno di sangue italo-franco-teutonico. Proprietario di una catena di ristoranti di lusso. Di una catena di profumerie di lusso. Di una catena di villaggi vacanza di lusso. E di una catena di conti correnti di lusso, tra Liechtenstein, Svizzera e Andorra. Guadagnati con la coca, le puttane e il gioco d'azzardo. E ripuliti con le stelle Michelin, le fragranze alla rosa canina e le piscine con acqua pura della Camargue.
Punto terzo: il black-jack. Il Francese lo aveva preso in simpatia da quando lui, quella sera al casinò di Campione, aveva contato più rapidamente dei sorveglianti al tavolo da gioco e così si era portato via qualche migliaio di euro. Senza strafare. Senza sbracare.
Punto quarto: la cena. Dopo la vincita, a tavola col Francese e una ventina di papaveri dell'alta finanza europea. Un consesso che lui inizialmente aveva studiato in silenzio e che in pochi minuti gli sembrava di avere già in tasca. Una cena a base di ostriche e tartufo nero. E champagne. Tanto. Troppo. L'allegria che aveva alzato il tono delle voci. I volti che brillavano di rubino. Gli aneddoti che si erano sovrapposti in una Babele miliardaria. Finché, all'improvviso, era calato il silenzio. Violento e teso. E lui che aveva sentito riecheggiare quello che gli era scappato di dire pochi secondi prima: “Coi miei derivati vi fotto tutti, quando voglio”.
Punto quinto: l'orgoglio. Quello che aveva portato il Francese a ordinargli seccamente di andarsene subito. Quello che aveva portato lui a sorridere e ribattere: “Ma dai, stai scherzando, te la prendi per così poco?”. Quello che aveva portato il Francese a farglisi vicino, troppo vicino, per sussurrargli in un orecchio: “Solo io posso fottere tutti, qua dentro, ragazzino. Compresi te e la tua puttanella”. Quello che lo aveva fatto incazzare come una belva, fino ad alzare una mano minacciosa, rimasta a mezz'aria. Quello che aveva dato al Francese la rapidità e la forza per abbatterlo con un pugno secco alla mascella, ma senza fargli perdere conoscenza. Perché riuscisse a vedere il segno del comando sul suo polso. Il tatuaggio con lo scorpione incoronato. E gli si imprimesse per sempre nella mente.
Punto sesto: il basso profilo. Dopo quella sera, lui era tornato al suo lavoro. A far guadagnare palate di denaro. Scommesse sul grano, sul petrolio, sui debiti sovrani. Scommesse che scatenavano guerre vere e missioni di pace finte, che aizzavano gli uni contro gli altri in uno scontro suicida tra capponi di Cristo e di Maometto, che diffondevano il fetore della paura e dell'angoscia. A quella grande abbuffata lui partecipava di striscio, senza coinvolgimento. Il pugno del Francese gli aveva fatto capire che non bisognava mai abbassare la guardia e che a un genio come lui non si addicevano le cene, i circoli, le logge. Lui era la tecnologia. Loro la mondanità. Aveva capito che se voleva vivere senza rimanerne incastrato, doveva starne con un piede fuori. Fornire gli strumenti e chiudere gli occhi. Perché lui produceva le bombe al plutonio del capitalismo. Ma erano loro, i papaveri come il Francese e i suoi sodali, a individuare le vittime e a premere il pulsante assassino. Quel pugno lo aveva salvato. Gli aveva dato una seconda possibilità: costruirsi un futuro di bambagia a sei zeri senza dannarsi l'anima. Per poter dire addio, un giorno, a quel mondo malato e comprarsi quell'enorme villa in Sardegna che aveva già individuato, nascosta da tutto e da tutti. E portarci Jeanette, cui aveva già regalato il diamante di fidanzamento. E magari farci un figlio. Al quale avrebbe insegnato che l'algoritmo e lo scorpione non devono stare mai né troppo lontani, né troppo vicini. Ma alla giusta distanza.
Sempre Residence “Sergio Luiz”. Sempre dependance numero tre. Sempre lui. È in accappatoio, ora, sul divano. La vodka ha cessato di bruciargli lo stomaco da un bel po’, ormai. E i punti sono tornati al loro posto, uniti dalla stessa lineetta rossa. La situazione è chiara. Non ci sono alternative.
A ripensare a quel folle pomeriggio di caldo e apatia, iniziato con il link a un video porno, qualcuno avrebbe anche potuto riderci sopra. Ma lui adesso non rideva. Non poteva farlo. La consapevolezza gli aveva spento per sempre la leggiadria che una volta gli contornava gli occhi e le labbra, rendendolo un brillante trentenne aperto al futuro. Ora sapeva che il futuro, per lui, sarebbe stato soltanto quello del servitore. Il Francese aveva voluto dimostrargli che poteva fottergli tutto, compresi i sentimenti. E presto - ne era certo - si sarebbe rifatto vivo, per commissionargli una speciale bomba al plutonio e allargare ancora il suo dominio. E lui non avrebbe potuto negarsi. Mai più. Perché le radiazioni gli avevano contaminato l'anima e la metastasi era già in atto.
Pensò al figlio che ancora non esisteva, e forse, dopo quella giornata, non sarebbe mai esistito: la giusta distanza tra l'algoritmo e lo scorpione non poteva esserci. Perché erano le due facce della stessa medaglia.
Poi si rivestì, lasciò il residence e si diresse verso l'auto. L'A8, a quell'ora della notte, lo avrebbe accolto senza troppo traffico.