Seconda e ultima puntata
Ci diplomammo e ci iscrivemmo all’università. Io e Tano frequentavamo due Facoltà diverse e ci perdemmo ben presto di vista. Per me era difficile dimenticare che per quell’episodio non mi aveva mai chiesto scusa.
Poi arrivò di nuovo l’estate. Fu organizzata una cena tra ex compagni di liceo. Ci furono parecchie chiacchiere tra me e lui, come ai vecchi tempi, e alla fine ci promettemmo di non lasciar passare un altro anno prima di rivederci.
Fu Tano a telefonarmi, pochi giorni dopo. Mi propose di uscire, solo noi due, quella sera. Andammo in birreria e ci furono altre chiacchiere piacevoli, sul tutto e sul niente. L’episodio di un anno prima era stato cancellato dalle nostre menti. Al tavolo di quel locale sedevano due adulti e non i due ragazzi che avevano rischiato d’ammazzarsi senza un motivo. L’intenzione di frequentarci da allora in poi con regolarità fu dichiarata solennemente davanti all’ultimo boccale di birra scura. Poi arrivò il momento di tornare a casa.
Prima di montare in macchina, Tano mi disse che la mia nuova auto gli piaceva parecchio e mi chiese se poteva guidare lui. L’incertezza vi fu, e pesante, non lo nego. Ma il ricordo dell’odore dell’erba schiacciata sotto il mio corpo, lanciato a tutta velocità verso quel palo della luce, mi tormentò solo per l’istante necessario a cercare lo sguardo di Tano. Erano occhi di cui ci si poteva fidare, mi dissi. Gli consegnai le chiavi del mezzo e partimmo.
Quando, dopo alcuni minuti di guida, Tano accelerò di colpo e poi spense i fari, sbiancai e rimasi pietrificato, incredulo e incapace di dirgli niente. Durante quegli interminabili istanti, solcando a tutta velocità la strada illuminata dalla sola luce della luna, debole e pallida come la cera d’un morto, non vidi il film della mia vita passarmi davanti, come vuole il luogo comune, ma solo il ghigno malefico e terrificante di Tano, lanciato come un ossesso verso una voce che solo lui poteva udire, laggiù, in fondo al rettilineo. La voce melliflua e letale della sua sirena.
Arrivò la curva, sbandammo e uscimmo di strada. Di lato correva un canale per l’acqua. L’auto vi piombò dentro con un tonfo sordo e si arrestò sul fondale fangoso. L’assenza di acqua dentro al canale, in secca per la stagione estiva, fu l’equivalente esatto del mezzo metro che ci permise di schivare il palo della luce, l’anno prima. La vita salvata dal mero caso, per la seconda volta.
Non eravamo svenuti, né feriti. Anche stavolta ne saremmo usciti incolumi. Con fatica riuscimmo ad abbandonare l’abitacolo per andare a cercare aiuto. Trovammo un contadino che con un grosso trattore riuscì a tirare fuori l’auto dal canale. Misi in moto, feci qualche metro e constatai che non c’erano danni al motore. Dissi a Tano di montare e ripartimmo.
Non parlammo per tutto il tragitto. Arrivati sotto casa sua, Tano ruppe il silenzio solo per implorarmi di non raccontare mai ai suoi genitori quanto accaduto. Io non gli risposi. Le sole parole che avrei accettato da lui erano altre. Ma le sue scuse non arrivarono, nemmeno quella volta. Si limitò a scendere dalla macchina senza salutare, lo sguardo spaventato, perso a fissare qualcosa nel buio. Fu l’ultima volta che lo vidi.
Era di nuovo estate e io mi ero già laureato da tempo quando, molti anni dopo, mi telefonarono per darmi la notizia. Tano era morto.
Si trovava in Toscana con la sorella, in vacanza. Il mare era in burrasca ma lui, inspiegabilmente, ci era entrato lo stesso. Aveva raggiunto gli scogli al largo, vi si era issato e poi s’era tuffato. Aveva battuto la testa ed era morto sul colpo. Ci avevano messo ore per riuscire a disincagliare dalle rocce il corpo tumefatto e ormai gonfio d’acqua.
Dissero che era stato un incidente.
Ma io so che non è così.
Tano ha solo raggiunto, finalmente, la sua sirena.
A certe vite non si comanda.