Seconda puntata di cinque
1. Il castello
Dopo aver congedato la servitù, lasciando in servizio solo i due guardiani della cinta muraria, fu il padrone stesso ad accompagnare la donna in camera da letto. Le fece strada lungo la scalinata che portava al primo piano, e poi lungo un interminabile corridoio su cui si affacciavano le porte di decine di stanze. Le travi e le pietre di quel castello parvero alla donna persino più ostili dei tronchi e delle frasche fra cui aveva visto muoversi il branco di lupi, e i lupi stessi, ora, le parevano meno pericolosi della figura umana che la precedeva alta e possente, incedendo con passo marziale, avvolta da un mantello nero, simile a un drappo funereo, che ne accresceva ulteriormente l’aura di minaccia.
L’uomo si arrestò di colpo di fronte a una delle ultime porte e l’aprì, invitando la donna a entrare prima di lui. Lei deglutì la tensione e varcò la soglia.
La camera da letto era enorme ma spoglia, quasi spartana. Addossato alla parete c’era un letto altrettanto enorme. Di fronte al letto, una specchiera e una sedia pesante dall’aspetto molto antico, simile a un trono. Accanto alla specchiera, un’imponente stufa a olle, bollente. A sinistra del letto, una portafinestra dava accesso a un balcone, da cui la luce lunare filtrava illuminando la camera, aiutata da una lanterna affissa al soffitto. Sulla parete opposta si trovava una porta di legno.
- Quello è il bagno - disse l’uomo indicandola. - Nella vasca c’è dell’acqua calda. Avete tutto il tempo per ristorarvi. Io sarò di ritorno fra un’ora.
Tornato al piano terra, immerso nel più totale silenzio, l’uomo entrò nel grande salone e lì raggiunse l’armadietto degli alcolici. Si versò del liquore alla genziana e andò ad accomodarsi sulla poltrona di fronte al camino, dove crepitava un gran fuoco, unica fonte di calore e di luce.
Sorseggiando il liquore, l’uomo pensava alla donna che si trovava al piano di sopra. Era bella, d’una bellezza che non aveva mai ammirato, nonostante fossero decine le donne che aveva posseduto tra quelle mura. E questo lo rendeva inquieto.
Lo ius primae noctis sulle sue operaie, il diritto di privarle della verginità il giorno in cui si sposavano, era stato istituito ormai mezzo secolo prima da suo padre, d’accordo con tutti i capifamiglia del villaggio. Dopo aver aperto la fabbrica di tabacco giù in città, investendo gran parte del cospicuo patrimonio della casata, suo padre si era offerto di dare alle donne del villaggio la precedenza d’assunzione su qualunque altra, permettendo così alle loro famiglie di affrancarsi dall’eterna miseria della vita contadina, agra e ingrata. In cambio, ai capifamiglia aveva chiesto soltanto il diritto di possedere quelle donne quando si fossero sposate, prima dei rispettivi mariti. In quel modo sarebbe tornato a esercitare lo ius primae noctis di cui parlava la storia, o forse la leggenda, attribuendolo ai suoi antichi avi. I capifamiglia, dopo un breve conciliabolo, avevano accettato. Poi, per un insolente scherzo del destino, suo padre era morto d’infarto proprio mentre, alla rispettabile età di sessantasei anni, era intento a sverginare una delle sue operaie. A quel punto lui, figlio unico poco più che trentenne, aveva ereditato tutto: il castello, la fabbrica e lo ius primae noctis.
Lo esercitava ormai da quasi vent’anni, e non gli era venuto mai a noia. Gli sembrava anzi l’unica cosa appagante di un’esistenza altrimenti piatta, monotona, sempre uguale, trascorsa per quasi tutto il tempo dentro quel castello che ormai gli appariva simile a una prigione. E per il resto in fabbrica, la quale era fonte di grattacapi enormi quasi quanto i profitti che generava, dalla quale si teneva lontano sempre più spesso, e nella quale entrava ormai quasi solo per vedere se e quanto fossero belle le neoassunte. Non lo faceva per sceglierle, dato che esercitava sistematicamente il suo diritto su tutte, bensì per sincerarsi che nessuna fosse bella quanto l’unica di cui, dieci anni prima, si fosse mai innamorato. In un momento di debolezza aveva proposto a quella donna di lasciare il marito e di sposarlo, ricevendo da lei un no così sdegnato, così altezzoso, così offensivo, da renderlo folle di rabbia, da trasformarlo in una bestia feroce. Fuori di sé, l’aveva picchiata su quello stesso letto dove poco prima l’aveva sverginata, l’aveva picchiata finché al sangue della penetrazione si era aggiunto quello delle botte, l’aveva picchiata fino a ucciderla. Con la famiglia aveva sistemato le cose versando una grossa somma di denaro, ma gli era apparso chiaro, dagli sguardi della gente giù al villaggio, che da quel momento in poi, se avesse voluto continuare a esercitare lo ius primae noctis, non avrebbe più dovuto commettere sciocchezze simili.
C’era riuscito, anche perché nel castello non era entrata più nessun’altra donna bella quanto quella che aveva ammazzato. Fino a quel giorno. Fino a quando, meno di un’ora prima, era arrivata colei che adesso si trovava al piano di sopra, in camera da letto. Mentre la osservava alla luce della luna, durante il viaggio in carrozza, aveva capito chiaramente che quella prima notte non avrebbe potuto essere l’unica. Non si sarebbe accontentato di possederla una volta sola. Stavolta, però, non avrebbe commesso l’errore di dieci anni prima. Stavolta non le avrebbe chiesto di sposarlo, ma soltanto di diventare la sua amante. Una volta al mese, lei si sarebbe recata al castello e gli si sarebbe concessa. In cambio, avrebbe avuto la garanzia di non essere licenziata. Avrebbe accettato senza opporsi, si disse mentre finiva di bere il liquore. Perché quella donna era soltanto un’operaia, e lui il suo padrone.
La donna prese l’asciugamano candido e soffice che aveva trovato accanto alla vasca e si asciugò il corpo ristorato dal bagno caldo. Quella sensazione di benessere la irritò. Era fuori luogo, pensò. Quel posto e il benessere erano due cose opposte, si disse, e tali dovevano restare. Quel posto, e quell’ingannevole sensazione di benessere, erano soltanto il viatico necessario e inevitabile per la sua nuova vita, finalmente lontana da quella vallata, da quel freddo, da quel buio. Da quel villaggio e dalla sua gente.
Eppure, rifletté, a lei quei posti, quando era piccola, piacevano. Le era parso, fino a un certo punto, di non aver bisogno d’altro, per vivere felice, che di quelle montagne da scalare, di quell’erba su cui correre, di quelle mucche da mungere, di quelle strade su cui giocare, passeggiare, chiacchierare con le amiche, di quei fienili dove appartarsi coi ragazzi, baciarsi e non fermarsi, a dispetto di ogni precetto. Poi era arrivata la fabbrica di tabacco, a sedici anni. E nulla, per lei, era stato più come prima.
Nove ore chiusa lì dentro sei giorni su sette, quando non diventavano dieci o dodici, quando non le chiedevano, nei periodi di maggior lavoro, di andarci anche la domenica. Tutto quel tempo a fare sempre gli stessi gesti, a produrre ciò di cui non avrebbe goduto, a respirare aria cattiva, ad assordarsi, a spaccarsi la schiena per guadagnare certo di più che coi campi e con le bestie, ma non abbastanza da giustificare quello stillicidio giornaliero, quella tristezza, quell’insensatezza. Perché, in fondo, nessuna cifra li valeva.
I suoi genitori, tuttavia, erano stati categorici: il padrone concedeva alle donne del villaggio il privilegio di lavorare per lui, e rifiutarlo sarebbe stato da pazzi incoscienti.
Erano pavidi e meschini, pensò mentre finiva di asciugarsi. Loro e tutti gli altri, che mandavano le figlie in pasto a quell’uomo orribile per ben due volte: la prima quando le facevano assumere alla fabbrica e la seconda quando le sposavano e poi le costringevano a sottostare a quel barbaro accordo, a quel brutale mercimonio, a quello stupro. Erano interessati soltanto al denaro. Ed erano degli ipocriti. Lo ius primae noctis vigeva da mezzo secolo, in quel villaggio, ma nessuno lo nominava mai apertamente. La prova, si limitavano a chiamarla. Quelle come lei, dicevano, andavano al castello per dimostrare che erano donne d’onore, in grado di fare felici i loro mariti e di dare loro dei figli. Il padrone avrebbe concesso loro di esporre al balcone del castello, la mattina dopo, il lenzuolo macchiato del loro sangue di vergini, e in quel modo avrebbe garantito riguardo alla loro idoneità, al loro essere donne, al loro stesso diritto di esistere.
Ma con lei non sarebbe accaduto, si disse mentre usciva dal bagno e andava a infilarsi a letto, nuda com’era. Lei, Rita Anzelini, sarebbe stata la prima operaia capace di sottrarsi a quel giogo. Lei, Rita Anzelini, li avrebbe delusi tutti quanti: non avrebbero trovato nessun lenzuolo macchiato dal suo sangue, l’indomani mattina, esposto al balcone di quella camera da letto. E non avrebbero trovato nemmeno lei. Perché lei, Rita Anzelini, era una donna che aveva finalmente deciso di ribellarsi a tutti i suoi padroni.
Il padrone apparve sulla soglia della camera qualche minuto dopo. Senza dire nulla, si limitò a guardare la sua operaia con occhi pieni di brama. Poi iniziò a spogliarsi, fino a restare completamente nudo. A ormai cinquant’anni, il suo fisico era ancora prestante. Dovevano considerarsi fortunate, quelle donne, a poterne beneficiare, pensò, e poi avanzò verso il letto.
Rita lo guardava, ma la sua era tutt’altro che ammirazione. Lo guardava come si guarda il maiale, prima di sgozzarlo. E a quel punto, per la prima volta da quando lui l’aveva sequestrata, gli parlò.
- Potreste accostare le tende, per favore? - domandò.
L’uomo, ormai sul punto d’infilarsi a letto, la guardò sorpreso.
- Accostare le tende? - chiese. - E perché mai?
- È che vorrei più intimità...
L’uomo sorrise. Davvero erano ancora delle bambine, quelle donne, si disse. E il suo un vero e proprio favore che faceva ai loro mariti: le mogli entravano al castello infantili, senza esperienza, e ne uscivano mature, sapienti, pronte a soddisfarne ogni voglia. E il merito era suo. Per quello gli uomini del villaggio lo rispettavano e si levavano il cappello, quando lo incontravano. Non c’entrava la sua ricchezza, la sua posizione, la sua potenza: era solo riconoscenza, la loro, e nient’altro.
- D’accordo - disse.
Accostando le tende, gettò un’occhiata alla luna piena. Quel bagliore lo rinvigorì e quasi gli venne voglia di ululare, ma si contenne.
- Grazie - disse Rita.
- Non è di questo che dovrete ringraziarmi... - rispose lui infilandosi a letto. Senza perdere tempo, fece correre subito la mano sulla pelle liscia di lei. Iniziò ad accarezzarle i seni, e poi a scendere.
- Aspettate - disse Rita.
Lui si arrestò, seccato.
- Cos’altro c’è?
- Posso toccarvi anch’io? Avete un corpo bellissimo...
Lusingato da quel complimento, il padrone acconsentì.
Rita iniziò ad accarezzargli lentamente il torace, i capezzoli, l’addome. Fu quando gli prese in mano il pene eretto che la porta della camera fu aperta con violenza. Sollevata, Rita sorrise e si voltò.
- Mani in alto! - disse uno dei quattro uomini che avevano fatto irruzione, il viso celato da fazzoletti neri e le pistole in pugno.
Il padrone trasalì.
E anche Rita, il sorriso sparito di colpo, spalancò la bocca, vinta dalla sorpresa e dalla paura.
Fine della seconda puntata
La terza verrà pubblicata il 9 gennaio 2025
Il cognome Anzelini mi porta subito in alta Val di Non!
Un thriller medievalmoderno. E che accadrà mai adesso?