La luce accesa in cantina (2)
Una storia che sa di guasti elettrici e bottiglioni frantumati
Seconda e ultima puntata
Da quando ero uscito dall’ospedale psichiatrico e avevo fatto ritorno a casa, non avevo più avuto alcun segno della presenza di mio padre. O, meglio, del suo fantasma. Il che, del resto, mi era parso perfettamente logico: come mi avevano spiegato i dottori, i fantasmi non esistevano. Le voci e i rumori che anni prima avevo udito per mesi provenire dalla cantina, erano esistiti solo e soltanto nella mia mente. Erano proiezioni dovute ai numerosi traumi che avevo subito durante la mia esistenza.
Prima gli abusi sessuali di cui lui mi aveva reso oggetto per lungo tempo, quando ero piccolo; poi la morte di mia madre, ufficialmente d’infarto, in realtà di crepacuore, causato da ciò che mio padre faceva con me e dalle botte che lei incassava quando provava a impedirglielo; poi le botte che mio padre, morta mia madre, aveva cominciato a riservare a me; poi la morte di mio padre stesso, che avevo ammazzato quando avevo trent’anni, giunto ormai al limite della sopportazione, proprio laggiù in cantina, usando un bottiglione da dieci litri per tramortirlo e queste mie mani per strozzarlo; e infine il processo, dal quale ero uscito assolto in appello, per legittima difesa, ma solo dopo una condanna in primo grado per omicidio e due lunghi anni trascorsi in carcere, che avevano provato oltremodo la mia tenuta mentale, già molto debole.
Quando finalmente ero stato scarcerato ed ero tornato a casa, avevo iniziato a sentire quelle voci e quei rumori, laggiù in cantina, e mi ero rapidamente convinto che si trattasse del fantasma di mio padre, tornato dal mondo dei morti per rinfacciarmi di averlo ucciso vigliaccamente e impunemente. Finché un giorno, distrutto dal senso di colpa, ero sceso in cantina con una corda, l’avevo attaccata a uno dei ganci di ferro e mi ero impiccato. Solo che il gancio, dopo alcuni secondi, aveva ceduto. Non ero morto, ma ero rimasto a terra con una gamba rotta, incapace di muovermi. Mi ero messo a gridare aiuto e uno dei vicini, sentendo le urla dalla bocca di lupo, aveva chiamato i carabinieri. Era stato allora, dopo aver ascoltato le spiegazioni del mio gesto, che mi avevano rinchiuso in un ospedale psichiatrico.
Ci ero rimasto due anni e ne ero uscito convinto che, se davvero ero guarito come tutti i dottori avevano dichiarato, allora potevo tornare tranquillamente a casa, senza timore di udire nuovamente quelle voci e quei rumori. E così era accaduto. Tutto era andato bene. Fino a quando non era cominciata quella maledetta faccenda della luce accesa, a segnalarmi che il fantasma di mio padre era tornato.
Mi rimisi di nuovo in piedi e mi asciugai le lacrime. Rimasi a fissare a lungo le pareti scrostate della cantina, alla luce giallognola della lampadina. Ormai odiavo quel posto con tutto me stesso. Col cazzo che avevano ragione i dottori, mi dissi, improvvisamente pieno di rancore. I fantasmi esistevano, eccome se esistevano.
Mi avevano imbrogliato, quei dottori. Mi volevano male. Tanto quanto mio padre, forse di più. E io li avevo persino ringraziati, mentre mio padre lo avevo ammazzato, con crudeltà e freddezza: lo avevo guardato negli occhi sbarrati, mentre lo strozzavo, fino a quando non li avevo visti chiudersi per sempre. Altro che legittima difesa. Lui quel giorno mica aveva cercato di uccidermi, come invece, su consiglio dell’avvocato, avevo dichiarato al giudice. Aveva solo iniziato, una volta di più, a riempirmi di botte, perché io, lì in cantina, da quel buono a nulla che ero, avevo fatto cadere un bottiglione di vino mentre lo aiutavo a travasarlo. Il suo amato vino, che lui comprava coi suoi soldi, soldi sudati dopo una vita di fatica, così come comprava coi suoi soldi ogni cosa di cui io avessi bisogno, perché non ero stato capace di trovarmi né un lavoro né una moglie, inetto com’ero, ed ero rimasto a suo carico, a farmi mantenere, a ormai trent’anni suonati. Qualche ceffone ogni tanto, a pensarci, me lo meritavo, e pure i calci e i pugni. In fondo, mio padre mi picchiava per il mio bene. E io lo avevo ripagato ammazzandolo.
Dovevano mettermi in prigione e buttare via la chiave, altro che assoluzione. Ma anche quello schifoso di avvocato, che diceva sempre di fare il mio interesse, mi aveva convinto del falso: che io ero la vittima e mio padre il carnefice. E così, alla fine, era stato proprio lui, mio padre, a tornare dal mondo dei morti per venire a rinfacciarmi la mia colpa. Lo aveva già fatto una volta e adesso era di nuovo lì, in casa mia, dentro quella cantina. Quella luce che continuava a rimanere accesa era la sua chiamata.
Capii chiaramente che la sola cosa da fare era rispondere: portare a termine ciò di cui non ero stato capace al primo tentativo. Stavolta non ci sarebbero stati dottori e avvocati del cazzo a raccontarmi le loro balle. Stavolta ci sarebbe stato solo e soltanto il mio castigo. Il mio meritato castigo.
Mi guardai attorno con occhi adrenalinici: la corda era rimasta lì, in cantina, posata su uno degli scaffali. Mi sincerai che fosse ancora in buono stato: lo era. Poi salii sul tavolo e da lì la attaccai a uno dei ganci di ferro. Stavolta mi assicurai che tenesse, appendendomi e tirando più forte che potevo: teneva. Formai il cappio e c’infilai il collo. “Papà, perdonami”, mormorai. “Adesso finalmente torno da te”.
Proprio in quel mentre notai uno scarafaggio enorme camminare sulla parete di fronte a me. Quegli insetti rivoltanti avevano iniziato da qualche tempo a infestare la cantina. Quella vista orrenda mi aiutò a evitare ogni ulteriore indugio: diedi un colpo al tavolo e mi lasciai cadere nel vuoto. La morte sopraggiunse in meno di un minuto. Un istante dopo abbandonai il mio corpo e diventai il mio fantasma.
Non mi meravigliai né mi spaventai: ormai sapevo che i fantasmi esistevano. Per un attimo, mi soffermai a osservare il mio cadavere appeso al cappio, oscillare pallido e lento. Poi mi guardai attorno, cercando lui: il fantasma di mio padre. Avevo dato per scontato che l’avrei trovato lì in cantina ad attendermi, pronto a perdonarmi. Ma non c’era.
C’era ancora, invece, lo scarafaggio. Ne provai ulteriore schifo. Anche i fantasmi provano schifo. Quando lo diventerete anche voi, lo capirete meglio. Seguii con lo sguardo l’insetto avanzare sulla parete, fino a quando non raggiunse l’interruttore della luce e vi camminò sopra. Di colpo fu buio. E solo in quel momento capii.
Quel vecchio interruttore era così usurato che per muoverlo bastava sfiorarlo. Erano gli scarafaggi che, camminandoci sopra, causavano l’accensione della lampadina. Il fantasma di mio padre non c’entrava nulla. Nessuno mi aveva chiamato dal mondo dei morti. Avevo commesso uno stupido errore. Mi ero tolto la vita per niente.
Affranto, mi misi a piangere. Perché, sappiatelo, anche i fantasmi piangono.
Ragazzi, questo è pure horror, ci mancava solo lo scarafaggio per completare il quadro.