Il malato immaginato (2)
Una storia che sa di decisioni incomprensibili e flâneurs alla Baudelaire
Seconda e ultima puntata
Furono due mesi indimenticabili. Le giornate della mia nuova vita trascorsero più o meno com’era trascorsa la prima: lente, dolci e meravigliosamente vuote.
Andai in libreria a fare scorta di libri, puntando sui classici. Cominciai da Baudelaire, perché la mia fidanzata dei tempi dell’università lo adorava ma non era mai riuscita a trasmettermi la sua passione, preso com’ero, all’epoca, dai miei stupidi testi di economia.
Quando non leggevo, girovagavo per la città senza alcuna meta, proprio come faceva Baudelaire. Diventai un flâneur. Notai vie ed edifici che fino a quel momento avevo soltanto guardato, decine e decine di volte, senza vederli mai. Scoprii l’esistenza di piccoli mondi, ognuno con le sue regole e le sue stranezze; mondi ai quali non ero mai appartenuto, seppellito com’ero dentro al mio; mondi che non erano necessariamente migliori del mio, ma che erano molto diversi. Era uno spettacolo, e io vi assistevo rapito.
Ilaria parve tranquillizzarsi, durante quei due mesi. Mi vedeva sereno e pensava che stessi guarendo. Provai a insistere, inizialmente, sul fatto che no, non guarivo affatto, perché semplicemente non ero malato, ma lei rispondeva sempre con dei sorrisi comprensivi, come quelli che si fanno al matto, quando dice di essere Napoleone. A un certo punto lasciai perdere. Le feci credere quello che voleva. Prima o poi, mi dissi, avrebbe capito che era solo la mia nuova vita, quella, e che viverla mi rendeva felice. Mi amava, Ilaria, e lo avrebbe accettato.
Gianni, invece, non si dava pace. Mi chiamava ogni settimana e mi diceva che l’azienda senza di me annaspava, che stavano già perdendo quote di mercato. Che aspettavano a braccia aperte il mio rientro. Ma poi si fermava, non andava oltre. Sapeva che non doveva mettermi ansia. Che per recuperare da un burn-out ci voleva tempo. Non ebbi mai cuore di spiegargli che non c’era alcun burn-out e che non sarei più tornato al lavoro.
Passati quei due mesi, tornai da Aldo.
- Allora, Michele, come ti senti adesso?
- Benissimo - gli dissi.
Sorrise a trentadue denti.
- Mi fa piacere. A quanto pare, siamo intervenuti in tempo. La sindrome da burn-out può diventare una brutta bestia, se non viene curata... E mi raccomando: vacci piano, adesso che torni al lavoro. Riparti facendo poco, senza affaticarti. E magari ogni tanto prenditi un giorno di ferie, stacca, fai altro.
Sospirai. Non c’era verso di uscire da quel binario. Erano tutti ossessionati dal mio rientro al lavoro, nei ranghi, nella cosiddetta normalità.
- Ascolta, Aldo, io non tornerò al lavoro.
Si bloccò e non disse nulla per un lungo istante. Infine scosse la testa.
- Cristosanto… - disse. - È più grave del previsto.
Sospirai di nuovo. Tutta quella faccenda stava cominciando a stancarmi.
- Aldo, io non so più come spiegartelo...
- I farmaci li hai presi? - m’interruppe, brusco e perentorio.
- No, non ho preso nessun farmaco. Non mi servono.
- Così però non va bene! - sbottò. - Non va bene per niente!
- Aldo, per favore...
- Per favore lo dico io, Michele, ma solo perché sei un amico! Altrimenti ti lascerei al tuo destino. Se un paziente non vuole curarsi, per me è libero di farlo. Però se quel paziente è un amico, è diverso. E quindi sentimi bene. Adesso io ti do altri due mesi di malattia, però tu quei farmaci devi prenderli, hai capito? Altrimenti non guarirai mai!
Chiusi gli occhi, sospirando. E, pur di liberarmi di lui, gli dissi di sì.
Ovviamente non presi alcun farmaco. Semplicemente, tornai alla mia nuova vita da flâneur, continuando a rimandare il momento in cui avrei dovuto convincere una volta per tutte Ilaria, Aldo, Gianni e chiunque altro che non ero malato e che non sarei mai più tornato al lavoro. Ogni giorno mi dicevo che era quello giusto, ma poi non lo era mai. Finché iniziai, stavolta per davvero, a sentirmi male.
Dapprima arrivò la nausea. Poi il vomito. Poi i tremori. Infine iniziò a cambiare il mio umore. In alcuni momenti mi sentivo particolarmente vivace, una vivacità che sconfinava nell’eccitazione, anche se non c’era alcun motivo per essere eccitato, il che mi faceva sentire terribilmente a disagio. In altri momenti, all’opposto, mi sentivo scarico, le palpebre pesanti, una sonnolenza innaturale che non se ne andava dormendo, e che spesso, anzi, senza alcuna logica, mi impediva di dormire davvero.
Ne parlai a Ilaria, ma lei mi disse di non preoccuparmi, che mi vedeva migliorare di giorno in giorno, che a breve sarebbe passato tutto e sarei stato di nuovo in grado di tornare a lavorare. Quel suo atteggiamento inspiegabile - prima convinta che stessi male quando stavo bene, e poi l’esatto contrario - mi irritava maledettamente. Finché un giorno, dopo che lei mi aveva appena ripetuto, per l’ennesima volta, di non preoccuparmi, che andava tutto bene, persi il controllo.
- Tutto bene un cazzo! - le urlai in faccia. - Ma sei scema? Non lo vedi che sto male, non lo vedi che non sono più io?
Ilaria non era abituata a essere trattata così, da me. Nemmeno nei momenti peggiori ero solito alzare la voce e usare il turpiloquio con lei. Si ritrasse spaventata, senza dire nulla. Quel suo silenzio m’irritò ulteriormente.
- Mi avete rotto le palle! Tu, Aldo, Gianni! A forza di ripetermi che sono malato, mi ci avete fatto diventare davvero! Siete degli stronzi! Vi odio!
Fu a quel punto che Ilaria scoppiò a piangere e m’implorò di perdonarla.
La guardai senza capire.
Tra i singhiozzi, mi disse che aveva fatto una cosa terribile, ma solo per il mio bene, e solo perché Aldo era d’accordo.
- Di cosa stai parlando? - le domandai preoccupato.
- Ti ho sbriciolato i farmaci nel cibo - disse.
Sbarrai gli occhi.
- Da quanto tempo lo fai? - chiesi con durezza.
- Un mese.
Tacemmo a lungo.
- Perdonami, Michele.
Non la perdonai. Non potevo. Quel che aveva fatto era troppo. Non si trattava dell’inganno in sé, su quello avrei anche potuto passar sopra. Non perdonai Ilaria perché era stata così incapace di accettare la mia scelta, la mia nuova vita, e quindi il nuovo me stesso, da preferire credere che fossi malato. E perché preferì continuare a crederlo anche dopo quella confessione. E, come lei, pure Gianni e Aldo. E i parenti e gli amici. E tutti quelli che mi conoscevano.
Decidere di lasciare il proprio lavoro, per quanto inutile e persino dannoso alla società come quello che facevo io, decidere di smettere di lavorare per il semplice fatto che non se ne ha alcun bisogno, oggi è un gesto così radicale, così incomprensibile, da crearti il vuoto attorno. Da indurre la gente a crederti malato. Matto.
Con la mia vecchia vita, va da sé, ho chiuso definitivamente. Ho cambiato casa, compagna, medico. Continuo a leggere i classici e a fare il flâneur. Sto bene. Non mi serve altro.
Narrazione in prima persona. Narratore che suscita comprensione, ma probabilmente inattendibile.
Un po' come Zeno.
Bisognerebbe proprio fare così...