Il malato immaginato (1)
Una storia che sa di decisioni incomprensibili e flâneurs alla Baudelaire
Prima puntata di due
- Amore, ma cosa stai facendo?
Non stavo facendo niente, in realtà. Ed era questo il punto.
Non risposi. Stavo ancora cercando di capire perché, pochi minuti prima, proprio quella mattina, una mattina come tutte le altre, insignificante come tutte le altre, avessi di colpo preso la decisione più importante della mia vita senza averla mai meditata prima, senza averci riflettuto nemmeno un secondo, d’istinto, come se mi avessero chiesto di che colore è il sangue.
- Rosso, mica c’è da pensarci... - borbottai ad alta voce.
- Come?
Guardai mia moglie, ferma sulla porta della camera, con occhi assenti.
- Michele, ma stai bene? - mi domandò preoccupata.
Poi si avvicinò al letto - mi trovavo ancora a letto, erano le sette e mezza di mattina e io ero ancora a letto - e mi mise una mano sulla fronte.
- No, niente febbre - disse. - Ma allora cos’hai?
Niente, non avevo niente. E anche questo, soprattutto questo, era il punto. Ma non risposi.
- Senti, io devo andare - disse lei. - Se non stai bene, non fare l’eroe e resta a casa, ché monumenti non te ne farà nessuno, in azienda...
Annuii. Eccome, pensai, se sarei rimasto a casa. Non desideravo altro.
Dopo la partenza di Ilaria, rimasi a letto un’altra mezzora, poi mi alzai.
Feci colazione di gusto. Aveva il sapore del dolce far niente. Un sapore che non sentivo da quarant’anni, dall’epoca degli interminabili pomeriggi di noia, durante le estati della mia infanzia. Era passato davvero tanto tempo, pensai. Scacciai la malinconia, sparecchiai la tavola, mi stesi sul divano e mi rimisi a dormire. Anche il mio sonno aveva arretrati di quarant’anni.
A svegliarmi fu il telefono. Dopo un istante di smarrimento in cui faticai a capire per quale motivo mi trovassi lì, in pieno giorno, a dormire sul divano, mi riebbi, lo afferrai e lessi il nome sul display. Era Gianni. Il mio capo.
- Pronto - dissi.
- Michele, ma dove sei?
- A casa.
Ci fu un istante di silenzio.
- A casa? Oggi c’è la riunione coi compratori, te lo sei scordato?
- No.
- E allora che cazzo ci fai ancora lì?
Niente, continuavo a non fare niente. E questo continuava a essere il punto. Non dissi nulla.
- Non dirmi che ti sei ammalato proprio il giorno più importante dell’anno…
Non risposi. Non sapevo ancora come spiegare la mia decisione alla gente. Non era semplice.
- Cazzo, Michele... Questa non ci voleva... Senti, rimettiti alla svelta. E coi compratori vedrò di arrangiarmi da solo...
Non dissi nulla e Gianni riattaccò.
Passai il resto della mattinata a oziare. Cercai un libro da leggere e mi accorsi che in casa non ne avevo. I pochi che c’erano li avevo già letti, tanto tempo prima, quando ancora leggevo. Allora accesi la tivù, ma mi annoiai quasi subito. Nemmeno quella avevo mai tempo di guardarla, ma non mi perdevo nulla. Alla fine optai per la radio. Trasmettevano un vecchio documentario degli anni Cinquanta sulle suore di clausura. Era una vita misera, certo, ma semplice. In qualche modo mi sorpresi a invidiare quelle donne.
Poi mi preparai da mangiare. Pure quella era una cosa che non facevo mai. Scodellai un piatto di pasta scotta e mal condita, ma mi piacque molto di più di ciò che mangiavo in genere in pausa pranzo, coi colleghi. Apprezzai soprattutto il silenzio, mentre masticavo.
Dopo il pasto tornai a sonnecchiare per un’oretta, poi mi svegliai e uscii a fare una passeggiata. Abitavamo vicino a un grande parco pubblico, ma non l’avevo mai frequentato. Mi accorsi ben presto che in quel posto non c’era traccia di cinquantenni come me, per lo meno a quell’ora, a metà pomeriggio di un giorno feriale. A ben vedere, c’erano solo vecchi, ragazzi e mamme coi bambini. Di nuovo, fui assalito dalla nostalgia, ricordandomi di quando ero io, da piccolo, a giocare al campetto coi miei compagni. Non c’erano le mamme, all’epoca, e il tempo scorreva a fiotti.
Nonostante i ricordi di quel passato troppo lontano, rincasai d’animo sereno. Mi sentivo bene. Benissimo.
- Michele! Ma dov’eri?
Ilaria era già tornata dal lavoro.
- Al parco.
- Al parco?
- Sì.
- Ma non stavi male?
- Per niente.
- E allora perché non sei andato al lavoro?
Non esitai, stavolta. Decisi di dire le cose esattamente come stavano. Non c’era nulla da nascondere, in fondo.
- Non ne avevo voglia.
Ilaria sbarrò gli occhi.
- Michele, ma che stai dicendo?
- Che non ne avevo voglia. E penso che non ne avrò mai più.
Ilaria mi guardò come fossi matto. Si avvicinò a passo rapido. Di nuovo, mi mise la mano sulla fronte.
- No, la febbre non c’entra. Ma allora cos’hai?
- Niente. Non ho assolutamente niente.
Mi guardò sempre più preoccupata.
- Hai chiamato Aldo?
Aldo era il nostro medico.
- No. Te l’ho detto: sto benissimo.
Sospirò.
- Tu non stai bene per niente, Michele. Ti ho visto andare a lavorare a Natale e a Ferragosto. E non mi ricordo l’ultima volta che ti sei dato malato. Cosa c’è? Sei stressato? Hai qualche preoccupazione? Con me puoi parlare, lo sai...
Le sorrisi.
- Ilaria, ti dico che sto bene. Non mi sentivo così bene da tempo...
- Ma almeno Gianni l’hai chiamato?
- Ha chiamato lui.
- E cos’ha detto?
- Non l’ha presa bene.
- E ci credo. Oggi non c’era quella riunione importante?
- Sì.
Ilaria mi guardò con occhi grandi. Alla preoccupazione adesso pareva subentrata l’angoscia. Prese il telefono e chiamò Aldo. Gli disse che quel giorno non ero andato al lavoro perché non stavo bene, ma che non si capiva cosa avessi e che volevo un appuntamento. Poi mise giù.
- Ti aspetta domani alle 10.
- Michele, buongiorno.
- Buongiorno, Aldo.
Gli strinsi la mano e mi accomodai di fronte a lui. Per me era più di un medico, Aldo, e io per lui più di un paziente. Eravamo amici, fin da quando andavamo al liceo insieme.
- Allora, cosa c’è che non va? Ilaria mi è sembrata molto preoccupata, ieri al telefono...
- Niente, Aldo. Sto benissimo.
Mi guardò leggermente sorpreso.
- Pare anche a me - disse. - Ma allora perché ieri non sei andato al lavoro?
- Perché non ne avevo voglia.
Non rispose subito. Parve pensarci sopra.
- E oggi? Nemmeno oggi ne hai voglia?
- Nemmeno oggi. Penso che non ne avrò mai più.
- Capisco - disse. - Ma è successo qualcosa? Problemi coi colleghi? Un periodo particolarmente stressante?
- Niente di nuovo. Niente che non sia sempre successo negli ultimi trent’anni.
- E allora perché, di punto in bianco, ti sei dato malato?
- Non mi sono dato malato, Aldo, perché non sono malato. Tutti lo pensano, ma non è così. Ho semplicemente deciso di non andare più a lavorare.
Aldo strinse gli occhi a fessura, prima di farmi la nuova domanda.
- E perché lo hai deciso?
Ci pensai qualche istante.
- Ieri mattina mi sono svegliato ed è come se avessi sentito una voce che mi diceva che era la cosa giusta da fare. Una voce così convincente che d’istinto l’ho ascoltata.
Aldo smise di fissarmi e prese a guardare assorto fuori dalla finestra.
- Tutto chiaro, Michele - disse infine, tornando a posare lo sguardo su di me. - Questi sono i primi sintomi di una sindrome da burn-out. Esaurimento da lavoro. Bisogna intervenire prima che si aggravi, e in modo radicale. Ti do due mesi di malattia, poi torni qui e vediamo se stai meglio. Intanto ti prescrivo un paio di farmaci che dovrebbero aiutarti.
Cercai di spiegargli che non avevo bisogno di nessun farmaco e che avrei preferito tagliare corto e licenziarmi senza parlarne più, ma non ci fu verso di convincerlo. Mandò il certificato all’azienda e io mi ritrovai “malato”.
Fine della prima puntata
La seconda verrà pubblicata il 30 marzo 2023