Seconda puntata di sei
- Mi dovete rimborsare, capito?
Fabio Licunti non batté ciglio.
- Dico, hai sentito? Parlo con te!
Quel cliente stava alzando la voce, ma Fabio se ne restava calmo. Non perdeva mai la pazienza, lui.
- Non ne ha diritto - si limitò a rispondergli in tono asciutto. - Il suo sinistro non rientra fra i casi assicurati.
Al cliente andò il sangue alla testa.
- Ah, no, eh? Vi do più di quattrocento euro l’anno per cosa, allora?
Senza scomporsi, Fabio prese a elencargli tutto ciò per cui pagava.
- Come vede, il sinistro in questione non rientra nelle coperture - concluse.
- Lei è solo uno stupido impiegato! Voglio parlare col titolare!
- Si accomodi - gli disse Fabio, indicandogli la porta. - Chieda alla segretaria.
Il cliente lasciò l’ufficio a passo di carica e Fabio riprese a compulsare i suoi documenti. Odiava quel lavoro. Una persona come lui, dotata di un’intelligenza superiore alla media, non avrebbe dovuto avere a che fare con feccia simile, pensava. Un laureato quarantenne non avrebbe dovuto fare l’impiegato di una ditta di assicurazioni, avrebbe dovuto dirigerla. Ma se quel laureato era un sociopatico incapace di costruire qualsiasi tipo di relazione sociale, e quindi di leccare i culi giusti, gli toccava accontentarsi. Perché oltre a essere sociopatico era pure di umili origini, e non aveva il culo parato.
Passò circa mezzora e la porta del suo ufficio si aprì di nuovo. Era il capo.
- Dico, Fabio, sei impazzito? - gli urlò addosso.
Fabio si limitò a guardarlo, impassibile.
- Lo sono da sempre - disse, con la caustica ironia che di tanto in tanto sfoderava senza far ridere mai nessuno.
- Non scherzare! Lo sai chi era quello?
- Quello chi?
- Il tizio che hai preso a pesci in faccia poco fa!
- No - rispose. - Ma non l’ho preso a pesci in faccia, gli ho solo detto come stavano le cose con la sua assicurazione.
- Quello è il fratello di Mingardi, l’assessore!
- E allora?
Il capo, esasperato, si mise le mani nei capelli.
- Ma come fai a essere così fuori dal mondo, Fabio!
- Non sono io fuori dal mondo, è il mondo che è fuori di me.
- Adesso basta! Sono serio! Con gente come quella bisogna sempre accomodare, capito?
- No.
Il capo sospirò esterrefatto.
- Hai l’elasticità mentale di un comò, cazzo!
- No, ho l’elasticità mentale di un individuo affetto da disturbo antisociale della personalità.
Il capo non rispose subito, e parve persino calmarsi.
- Devi ringraziare la buonanima di tuo padre, Fabio, se ti ho assunto. Ma combinane un’altra così e sei licenziato in tronco - disse infine, prima di uscire dall’ufficio sbattendo la porta.
Poco dopo scoccarono le sei di sera e Fabio lasciò il posto di lavoro. Senza fare alcuna deviazione, perché lui non aveva amici né svaghi di alcun tipo, camminò spedito verso casa, dove lo attendeva la vecchia madre malata. L’unica persona che aveva capito quanto valeva. L’unica persona verso cui provava una specie di affetto. Ma prima o poi, pensò durante il tragitto, il momento della sua rivalsa sarebbe arrivato. Prima o poi, si disse, il mondo lo avrebbe visto, chi era Fabio Licunti.
Nella cassetta della posta trovò la lettera di uno studio notarile. Veniva dal sud Italia, dalla piccola e dimenticata regione che lui un tempo lontano aveva saltuariamente frequentato, avendo lì, in un minuscolo paese dell’entroterra, i parenti paterni. Era da quindici anni, ormai, da quando il padre era morto, che non metteva più piede in quel paese, perché non sopportava quei parenti, con i quali lui e la madre avevano interrotto ogni rapporto. Ricordava con nostalgia, però, quell’ambiente rurale, così diverso da quello della grigia metropoli del nord Italia dove lui era nato e aveva sempre vissuto. Allevare animali su quelle colline: da bambino, era stato quello il suo grande sogno. Ma poi il padre lo aveva voluto avvocato. Il vecchio non aveva capito, non aveva voluto capire, che un sociopatico sta meglio con le bestie che con le persone.
Prese l’ascensore, salì al suo piano, il settimo, ed entrò nell’angusto appartamento in cui da sempre viveva. Un tremendo puzzo di cavoli lo travolse. Vincendo la nausea, lanciò un saluto all’indirizzo della camera da letto, dove la madre passava ormai buona parte della sua triste esistenza, quando non pasticciava ai fornelli o non si rimbambiva davanti alla televisione. Poi, vinto dalla curiosità, si sedette al tavolo del soggiorno e aprì la lettera.
Lesse e i suoi occhi si illuminarono.
- Mamma - chiamò a voce alta.
- Cosa c’è? - rispose quella, allarmata.
- Il nonno è morto. Ho ereditato.
- Hai tre giorni per pagare. O ti faccio un buco in pancia.
Il Musa, pesce grosso dello spaccio cittadino, colpì con un pugno in piena faccia Marco Bagnoli, studente universitario fuori corso in arti, musica e spettacolo, e lo lasciò a terra nel vicolo lercio, bocconi e senza fiato. A Marco occorse qualche minuto per riuscire a tirarsi su e a rientrare nel locale, per raggiungere con una certa fatica il tavolo dov’erano rimasti seduti i due amici. Begli amici.
- Cos’è successo? - gli chiesero preoccupati quando videro l’occhio pesto.
- Non ve lo immaginate, eh? - rispose lui, aggressivo, senza sedersi. Poco prima, il Musa si era presentato al loro tavolo e lo aveva prelevato di peso, trascinandolo fuori, mentre i due amici, conigli che non erano altro, se n’erano rimasti zitti e immobili, senza nemmeno sognarsi d’intervenire in suo soccorso. Eppure sapevano bene perché il Musa lo cercava. Sapevano bene che Marco gli doveva cinquecento euro. Lo sapevano bene, i cosiddetti amici, perché gli avevano appena negato quel prestito.
- E dai - replicò uno di loro - mica potevi pretendere che ci mettessimo contro quell’animale...
- Mettervi contro, no, figurarsi - ribatté lui a brutto muso. - Ma almeno prestarmi i soldi che gli devo, quello sì, cazzo.
- Ma Marco, te l’abbiamo detto: anche noi siamo in bolletta - disse l’altro. - E tu sai bene cosa vuol dire...
Marco scosse la testa, si ficcò una mano in tasca, tirò fuori venti euro e li sbatté sul tavolo, in mezzo ai boccali che contenevano le birre scolate prima che il Musa arrivasse.
- Certo che lo so - disse. - Lo so così bene che per ringraziarvi dell’aiuto vi pago da bere.
Quelli iniziarono a protestare e a dirgli di non fare così, ma Marco non prestò loro ascolto e lasciò il locale di gran carriera.
Appena fuori, tuttavia, si pentì subito di quello stupido gesto di rivalsa, impulsivo com’erano troppo spesso le sue decisioni: quei venti euro erano fra i pochi che gli restavano. I genitori erano morti in un incidente stradale tre anni prima, e lui era riuscito a dilapidarne rapidamente la magra eredità in alcol, fumo, ragazze e altre cazzate. Per questo aveva dovuto ben presto darsi da fare per assicurarsi un reddito, trascurando fatalmente l’università, cui era rimasto iscritto solo per rispetto delle buonanime di mamma e papà, che tanto avrebbero voluto vederlo laureato. In cambio di paghe da fame, aveva lavorato nei posti più diversi, e più squallidi: un ristorante, un magazzino, una fabbrica, una ditta di consegne a domicilio, persino un’agenzia ippica. E in tutti i casi l’esito era stato lo stesso: licenziato nel giro di poche settimane. A un certo punto, stanco dei lavori regolari e sempre più bisognoso di denaro, aveva pensato bene di passare alle vie illegali. Conosceva il Musa per essersi rifornito da lui parecchie volte e così gli aveva fatto la proposta: diventare un suo galoppino, un piccolo spacciatore operante nel giro degli universitari, dove il Musa non era ancora entrato. Era andata bene per un po’, fino a quando, dopo una festa troppo movimentata nel suo appartamento e una sbronza ciclopica, Marco si era ritrovato, per colpa di qualche manolesta, senza il panetto di fumo che il Musa gli aveva consegnato alcuni giorni prima, concedendogli sulla fiducia un pagamento posticipato. Un buco da mille euro che Marco era riuscito a colmare coi suoi risparmi solo per metà. Gli altri cinquecento li aveva chiesti in prestito agli amici, senza successo. E adesso proprio non sapeva come rimediarli in soli tre giorni, prima che il buco, il Musa, glielo facesse in pancia. Glielo aveva promesso. Ed era un tipo che manteneva.
Arrivò davanti al portone del suo condominio, lo varcò e sgusciò quatto lungo le scale, diretto al quarto piano, dove si trovava l’appartamento che divideva con altri due studenti. Aveva il terrore d’incrociare un altro creditore, spietato quasi quanto il Musa: il padrone di casa. Gli doveva tre mesi di arretrati, e aveva già minacciato di sbatterlo fuori se non avesse saldato il debito entro una settimana. Quando raggiunse la porta dell’appartamento sano e salvo, tirò un sospiro di sollievo ed entrò.
Non c’era nessuno. Sul tavolo della cucina vide una lettera per lui, evidentemente ritirata dai coinquilini. Arrivava da uno studio notarile. Marco pensò subito a qualche altra grana, ma poi vide che giungeva da lontano, da un posto del sud Italia dove di certo non aveva debiti, ma solo una vecchia nonna, Graziella, che non vedeva dalla morte dei genitori. Un vago senso di rimorso lo assalì, dato che lui era il suo unico nipote e tante volte, al telefono, le aveva promesso che presto sarebbe andato a trovarla, percorrendo i cinquecento chilometri che si frapponevano tra la città e il paese. Ma non era un tipo che manteneva, lui. Né con la nonna, né con nessun altro.
Scacciò il rimorso e aprì la lettera.
Lesse e i suoi occhi si illuminarono.
Un miracolo.
La nonna era morta.
E lui era l’unico erede.
Fine della seconda puntata
La terza verrà pubblicata il 10 luglio 2025