Prima puntata di sei
Eccola arrivata. Dopo averla evocata per decenni in ogni sua pennellata, figura liquefatta, colore violento, la Certa adesso è finalmente lì, con lui. La sente. Non con le orecchie, ma col naso. Non puzza come dicono. Sa solo di antico. Nella penombra silenziosa della camera, quell’odore polveroso riempie le narici di Antonio, il pittore dei contadini, e non gli dà fastidio. Giace nel letto ormai da troppe settimane, emaciato, affannato, schiacciato dal peso di tutti i suoi novant’anni. Vuole solo farsi prendere per mano e andarsene. Ha vissuto. Ha dipinto. Non ha rimpianti, nemmeno uno. Nemmeno uno? Ci pensa sopra. Storce il naso. Non è vero. Uno c’è. Grande. Ed è per i suoi figli. Non quelli in carne e ossa, che non sono lì, che sono partiti tanto tempo prima, svaniti nelle grandi città, tornati in paese sempre meno, fino a dimenticare Antonio completamente, come del resto hanno fatto tutti, tranne Vittoria. I figli a cui tiene sono quelli di tela e di colore: i dipinti. Quelli sì che ci sono. Una decina solo lì, in camera: i più cari. E poi tutti gli altri, altre decine, sparpagliati ovunque in quella angusta abitazione, accatastati persino in bagno. Invenduti, perché nessuno mai ha riconosciuto il suo talento. Troppo cupo, il suo stile. Troppo disturbante. Che ne sarà di loro, adesso? Lo sa bene, Antonio, ed è per questo che sospira. Sa cosa vuole farne Vittoria, e sa di non avere, in fondo, alcun diritto di impedirglielo. Sarà l’eredità di un grande artista, dice sempre lei. Perle ai porci, pensa sempre lui. Anche ora. E lo sconforto, una volta di più, una volta di troppo, gli stringe il cuore. Che a quel punto, debole com’è, smette di battere. Antonio sbarra gli occhi per un istante e poi li chiude, mentre la Certa lo prende per mano.
Alfonso ha quasi cent’anni, ma sa che non arriverà a compierli. Fino a qualche tempo prima lo aveva considerato una specie di traguardo. Alcuni anni addietro, la morte della moglie e una brutta caduta dalle scale, avvenute in rapida, funesta successione, lo avevano reso d’un tratto vedovo e invalido. Senza la sua Rosina e senza i suoi campi, la vita che lui aveva sempre affrontato con impeto, senza arrendersi mai, gli era parsa di colpo completamente vuota. Alla dolce Rosina era subentrata la rude Olga, badante ucraina. E alle colline, alla masseria, alla terra, erano subentrate le quattro mura di casa, grigie e malinconiche, sempre uguali. Aggrapparsi a quella stupida cifra era stata l’unica cosa che l’aveva aiutato a tirare avanti. Gli mancavano pochi anni ai cento, si era detto, perché non raccogliere l’ultima sfida e provare ad arrivarci, nonostante tutto? Ma il gioco non è durato. Quel traguardo, e quella vita, si sono presto mostrati per quello che sono: privi di senso. L’unica cosa che per Alfonso ha senso, adesso, è raggiungere Rosina. Gli pare di vederla, laggiù in fondo alle scale, ventidue gradini più in basso. Gli pare che lo stia chiamando. L’ultimo pensiero prima di gettarsi tra le sue braccia va a loro, gli amati campi. Non ha potuto lasciarli a nessuno e ormai, incolti come sono, saranno già ricoperti di rovi e di sterpi, destinati a infittirsi e ad aggrovigliarsi sempre di più, cancellando definitivamente ogni traccia del suo lavoro. A quel pensiero, Alfonso non riesce a trattenere una lacrima. Ma poi scuote la testa e si passa il dito nodoso sulla guancia, per asciugarla. Non è il momento di piangere, quello. Sta per riabbracciare la sua Rosina. E forse, pensa mentre si butta e sorride, lassù ritroverà pure la terra.
Graziella ha ricominciato a vivere a ottant’anni. Le piace, adesso, il sapore della vita. Anche se è sola. Per oltre mezzo secolo, dal giorno del suo matrimonio, aveva sentito soltanto il sapore del sudore e del sangue. Il sudore versato ogni giorno prima sui campi e poi in casa, perché le donne, si sa, quando finiscono di lavorare fuori, devono subito ricominciare a farlo dentro, in un ciclo sfiancante cui solo la notte pone fine. E il sangue che le usciva dal naso e dalla bocca, quando il marito si ubriacava e poi la prendeva a calci e pugni. Da quando è morto, stroncato dalla cirrosi, Graziella ha finalmente iniziato a sentire altri sapori. Quello della libertà, innanzitutto. E a volte persino quello della felicità. Succede soprattutto nelle giornate d’inizio estate come quella, quando la prima brezza tiepida entra in casa muovendo piano le tende, e Stella, la sua gatta, le salta in grembo facendo le fusa. A Graziella non pesa affatto, la solitudine. Senza fratelli né sorelle, e senza più l’unica figlia, morta col marito in un incidente stradale tre anni prima, parenti non ne ha, per lo meno non accanto a sé. Vicini neanche, perché, oltre a lei, l’unica persona rimasta a vivere tra i vicoli sporchi del centro storico, nella parte più bassa del paese, è Maria la cecata, che lo sporco, per sua fortuna, non può vederlo. Ma lì, nella sua vecchia casa, Graziella ci è nata e non ha alcuna intenzione di lasciarla. Rispetto alle altre che la circondano, ormai cadenti e talune già cadute, casa sua è spaziosa e comoda, e ha pure una bella vista sulle colline. Quelle che ora sta guardando lieta, con Stella in braccio. Quelle che a un tratto smette di vedere, costretta a serrare le palpebre da un’improvvisa e terribile fitta al petto. Il cuore. Gliel’aveva detto, il medico, che era meglio affrettarsi a mettere un bypass. E Graziella, mai così vogliosa di vivere, aveva già prenotato l’intervento, previsto di lì a due giorni. Ma il dolore adesso è lancinante e lei ha già capito che non farà in tempo. La felicità dura sempre poco, le ripeteva sua nonna. Mentre si accascia a terra esalando l’ultimo respiro, Graziella constata con amarezza quanto fossero vere quelle parole. La gatta, dal canto suo, se ne resta a fissare con occhi spalancati il corpo ormai immobile della padrona, continuando, chissà perché, a fare le fusa.
- Ma certo, signora Adduocchio, ci mancherebbe! Siamo molto onorati e fieri di questo lascito, vero Michele?
Il sindaco del paese, dottoressa Rosaria Stuto, affiancata dal fido segretario comunale, geometra Michele Iannillo, stava facendo ricorso a tutte le sue riserve d’ipocrisia per fingersi lieta del dono che la vedova di Antonio Marinelli, giunta nel suo ufficio per darle l’annuncio, aveva deciso di fare all’amministrazione comunale: tutti i dipinti del defunto. La bellezza di sessantanove quadri, grandi, medi e piccoli. Bellezza, si faceva per dire. Chiunque in paese, tranne la moglie, li aveva sempre trovati orribili e angoscianti.
- Assolutamente - annuì il segretario, con identica faccia di bronzo.
Vittoria Adduocchio guardò soddisfatta i due interlocutori. Si era appena raccomandata sentitamente di trattare quelle opere d’arte con il rispetto che meritavano, dando loro una collocazione adeguata.
- Ne sono lieta - disse. - È proprio questo il motivo per cui le dono al Comune, anche se Antonio, schivo com’era, non avrebbe voluto: voi siete i soli che potete dare ai suoi dipinti la visibilità che, mentre lui era vivo, non hanno mai avuto.
Il sindaco incrociò lo sguardo del segretario per un istante, prima di ribattere. Il fratello della vedova era un noto imprenditore, con importanti agganci nell’ambiente politico del capoluogo. Per quanto non avesse grandi rapporti con la sorella, quella parentela suggeriva di trattarla con prudenza e assecondarla per quanto possibile. Prendendo tempo.
- Ci lasci pensare al modo migliore per valorizzarli. Non c’è dubbio che i quadri di suo marito vadano esposti come meritano. Dovremo individuare la sede adatta. E trovare i fondi necessari.
- Fate tutto quello che serve - disse la Adduocchio. - L’importante è che il risultato sia il migliore possibile.
Il sindaco e il segretario tornarono ad annuire, prima di accordarsi con la vedova sui dettagli della consegna e infine congedarla con forti strette di mano e sorrisi tanto larghi quanto finti.
- Brutta faccenda... - disse il segretario, una volta rimasto solo con il sindaco.
- Già - rispose lei, meditabonda. Pensare di esporre i quadri di Marinelli, quei volti allucinati, quei paesaggi trasfigurati, le metteva i brividi. I paesani lo avrebbero visto come uno sperpero di denaro, tirchi com’erano, loro e lei di più. E soprattutto lo avrebbero visto come un malaugurio, superstiziosi com’erano, loro e lei di più.
- Non vorrai davvero esporle, quelle croste? - le domandò il segretario.
- Certo che no. Ma sperare che la Adduocchio ci levi il fiato dal collo sarebbe inutile. Dobbiamo dimostrarle nel modo più convincente possibile che il nostro piccolo Comune non è all’altezza del compito. Farle capire che i quadri del marito qui da noi sarebbero sprecati, e che starebbero meglio altrove. Senza però urtare la sua suscettibilità.
- Non sarà facile - scosse la testa il segretario.
- Trova il modo. Dimostra che in paese non abbiamo sedi adatte.
- E il palazzo del podestà?
- Pericolante e umido. Fai qualche perizia. Dimostra che lì dentro i quadri rischierebbero di rovinarsi.
- Si potrebbe ristrutturare, però... È da anni che dovremmo farlo...
- Ci dissanguerebbe senza portare voti, lo sai. Fingi di cercare i finanziamenti necessari e raccogli risposte negative. E intanto prova a trovare qualcuno che sia disposto a farsi carico dell’esposizione. Magari in città, dove hanno altri spazi. E altri gusti.
- Va bene, ma ci vorranno mesi...
- Il meno possibile. Non voglio che quella robaccia resti da noi troppo a lungo.
Il segretario annuì sospirando, prima di salutare e incamminarsi verso la porta.
- Michele...
Il segretario si arrestò e si voltò, colpito dal tono preoccupato del sindaco.
- Tre morti in ventiquattro ore non li avevamo da tempo, qui in paese... - disse lei, riferendosi ai decessi di Alfonso Licunti e Graziella Franceschini, avvenuti una settimana prima, lo stesso giorno della morte di Antonio Marinelli. - Quel pittore del malaugurio non avrà già iniziato a portare male?
Il segretario ci rifletté qualche istante.
- Puoi scommetterci - rispose infine.
Fine della prima puntata
La seconda verrà pubblicata il 3 luglio 2025
Sei puntate!?! Record per il dispaccio, mi sa! :-)
Attendo il resto!