Big Ivan e l'orso polare (2)
Una storia che sa di scienziati pentiti, piloti eroici e distruzione totale
Seconda e ultima puntata
Dopo essere stata sganciata dal Tupolev Tu-95 alle 11.32 di quella mattina d’ottobre, a dieci chilometri d’altitudine, la bomba, dotata di un enorme paracadute per rallentarne la caduta, era scesa fino ad arrivare a quattro chilometri dal suolo. E lì era esplosa.
Nel frattempo il bombardiere si era allontanato alla massima velocità possibile, e al momento dell’esplosione di Big Ivan si trovava già a una distanza di quarantacinque chilometri. Il lampo di luce accecò per un istante il maggiore Durnovtsev e il resto dell’equipaggio. Poi, quando il velivolo era ormai arrivato a oltre cento chilometri dal punto dell’esplosione, arrivò l’onda d’urto. Mentre venivano fortemente sballottati, gli uomini dentro al bombardiere avvertirono un improvviso, intenso calore. Dopodiché scoprirono, con una certa sorpresa, di essere ancora vivi, a bordo di un aereo che, nonostante avesse perso quota precipitando per circa un chilometro, ancora volava.
Il maggiore, tuttavia, non pensò affatto a esultare. La patria lo chiamava anche in quel momento, anche mentre attorno a lui era in corso l’apocalisse, anche mentre il mondo, attorno a lui, pareva essere sul punto di finire, inghiottito per sempre dall’esplosione. Senza indugiare, secondo gli ordini, Durnovtsev si mise in contatto con la base aerea di Olenya e, con grande orgoglio, comunicò che la detonazione era avvenuta. Poi il contatto radio s’interruppe e il maggiore posò la ricetrasmittente. Fu allora che si lasciò andare e una lacrima, sotto il casco, scese a rigargli la guancia. Era la commozione per essere riuscito a servire la patria svolgendo un ruolo così importante. E forse pure, inconsciamente, la tristezza per non essere riuscito a morire servendola.
Dietro al Tupolev Tu-95, nel frattempo, il fungo atomico si allargava e si alzava sempre più, come un gigantesco mostro alato intenzionato ad artigliare e a stritolare, prima o dopo, l’intero pianeta.
Ad Olenya, quel 30 ottobre 1961, lui non ci era andato. E nemmeno era rimasto ad Arzamas-16, dove i suoi colleghi dell’Istituto di fisica sperimentale avevano allestito un collegamento diretto con la base aerea. Quando la bomba che aveva progettato era esplosa, segnando un punto di non ritorno nella storia dell’uomo, Andrej Sacharov si trovava appartato nella sua casa di Mosca, anche se forse sarebbe meglio dire esiliato. Per sua stessa volontà.
Il telefono squillò verso le due di pomeriggio. Lo scienziato si alzò dalla poltrona dove stava cercando invano di riposare e andò a rispondere a passo lento, come se stesse avanzando verso il patibolo.
- Pronto - disse.
- Il test è perfettamente riuscito, dottor Sacharov - rispose il comandante dell’aeronautica militare sovietica. - La bomba è esplosa. Tutto è andato come previsto.
Lo scienziato rimase a riflettere alcuni istanti su quelle parole così banali eppure così pesanti, definitive, irreparabili.
- Il raggio di distruzione totale qual è stato? - domandò con timore.
- Cinquantacinque chilometri.
Lo scienziato non rispose. Per un attimo, smise persino di respirare.
- Dottor Sacharov, mi ha sentito?
- Sì, l’ho sentita - disse con voce stentata. - Grazie per l’informazione. Buona giornata.
Riattaccò e tornò a sedersi.
Fuori, il cielo di Mosca era plumbeo, più del solito. Era lassù, tra quelle nuvole, che qualche ora prima il vecchio mondo era finito. Quello nuovo che vedeva approssimarsi rischiava di durare assai meno. Fino a che punto la folle corsa nucleare delle due superpotenze poteva continuare, prima che accadesse l’irrimediabile? Un’esplosione come quella che aveva appena raso al suolo un pezzo di Artico, di cui pure era riuscito a dimezzare la potenza all’ultimo momento, sarebbe stata in grado di cancellare per sempre dalla faccia della Terra, in una manciata di secondi, città come New York, Parigi, Londra, Berlino, Mosca. Il pensiero gli diede una vertigine incontrollabile, il respiro gli si mozzò di nuovo.
Riavutosi, capì chiaramente che cosa, da quel momento, avrebbe dovuto fare. Avrebbe usato la sua autorevolezza non più per servire un governo ormai in preda al delirio e alla pazzia, ma per opporvisi. Avrebbe contestato duramente gli esperimenti nucleari a scopo militare, perché solo una loro messa al bando internazionale avrebbe dato all’umanità la speranza di poter sopravvivere evitando l’olocausto atomico.
Però non sarebbe bastato, si disse. La bomba era solo la punta dell’iceberg, sotto cui si celava un regime repressivo che aveva da tempo, forse da sempre, rinnegato le sue origini rivoluzionarie. Finché un tale mostro rimaneva in vita, la pace mondiale restava in pericolo. Sarebbe diventato quello il suo scopo ultimo: combattere il mostro.
Non sarebbe stato facile. Lo avrebbero umiliato, emarginato, osteggiato, minacciato, esautorato, esiliato. Ripensò all’Artico devastato dalla bomba: gli sarebbe servita la forza del più grande orso polare per riuscire nell’impresa. E sperò, benché da uomo di scienza non fosse incline alla speranza né avesse mai creduto al soprannaturale, che ad accorrere in suo aiuto fosse proprio lo spirito di tutti gli orsi polari morti quel giorno nell’esplosione. Perché, si disse, una bomba, per quanto potente, può riuscire a polverizzare i corpi, ma non gli spiriti.
Nota dell’autore
Il racconto che avete appena letto è ispirato a fatti realmente accaduti.
La bomba termonucleare RDS-220, nome in codice Big Ivan, resta ancora oggi il più potente ordigno che l’uomo abbia mai fatto esplodere.
Il fisico Andrej Dmitrievič Sacharov (1921-1989), dopo aver contribuito in modo decisivo allo sviluppo delle prime bombe termonucleari sovietiche, tra cui Big Ivan, cambiò successivamente posizione e decise di opporsi strenuamente agli esperimenti nucleari a scopo militare. A partire soprattutto dagli anni Settanta iniziò a mostrarsi molto critico anche riguardo agli aspetti repressivi del regime sovietico, battendosi a favore dei dissidenti e dei perseguitati. Per via del suo attivismo fu insignito del Premio Nobel per la Pace nel 1975 e successivamente arrestato dalle autorità sovietiche e mandato al confino, per essere infine riabilitato solo nel 1986, tre anni prima di morire, da Michail Gorbačëv. Nessuna delle numerose onorificenze che Sacharov ricevette dall’Unione Sovietica nel periodo in cui collaborò alla costruzione della bomba termonucleare, poi revocate dal regime, è stata mai ripristinata.
Il maggiore Andrei Yegorovich Durnovtsev (1923-1976), dopo aver comandato il bombardiere Tupolev Tu-95 che il 31 ottobre 1961 oltrepassò il circolo polare artico e sganciò Big Ivan sopra la baia di Mitjušicha, nell’arcipelago di Novaja Zemlja, fu promosso al grado di tenente colonnello e insignito del titolo di Eroe dell'Unione Sovietica per il suo comportamento durante la missione.
Nonostante la devastante esplosione di Big Ivan, gli orsi polari non sono scomparsi dall’arcipelago di Novaja Zemlja. Scampata la minaccia atomica (l’ultimo esperimento nucleare nell’arcipelago avvenne nel 1966), il rischio più grande, per loro, si chiama oggi surriscaldamento climatico. Nell’inverno 2019 una cinquantina di esemplari hanno invaso per alcune settimane le strade dell’unico insediamento urbano presente nell’arcipelago, quello di Belus’ja Guba, in cerca di cibo. L’aumento delle temperature provoca impatti significativi sulla numerosità e sui movimenti della popolazione faunistica artica, rendendo spesso molto difficile, per gli orsi polari, trovare prede da cacciare.
Il primo esperimento nucleare a scopo bellico della storia è stato condotto dagli Stati Uniti d’America ed è avvenuto nel deserto di Jornada del Muerto nel Nuovo Messico il 16 luglio 1945. I Paesi che fino a oggi hanno ufficialmente condotto esperimenti nucleari sono otto: Stati Uniti d’America, Russia (primo esperimento nel 1949), Regno Unito (1952), Francia (1960), Cina (1964), India (1974), Pakistan (1998) e Corea del Nord (2006). Dal 1945 gli esperimenti nucleari effettuati a scopo bellico sono stati complessivamente oltre duemila. Oggi ne sono ben noti i gravissimi effetti su persone e ambiente. La International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (Premio Nobel per la Pace 2017) ha dimostrato come essi abbiano generato epidemie di tumori e altre malattie croniche, e come ampie porzioni di territorio siano rimaste radioattive e non sicure per la presenza umana anche decenni dopo la chiusura dei siti di sperimentazione. Il Trattato per la messa al bando degli esperimenti nucleari, che li proibisce in qualsiasi ambiente, è stato adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite solo nel 1996, ma a oggi non è ancora entrato in vigore per mancanza delle ratifiche necessarie da parte di otto Paesi: Cina, Corea del Nord, Egitto, India, Iran, Israele, Pakistan e Stati Uniti d’America (mentre la Russia ha revocato la propria ratifica nel 2023). Nel 2017 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite si è spinta oltre e ha adottato il Trattato per la messa al bando delle armi nucleari, che non ne vieta solo l’uso, ma anche la loro detenzione, produzione e acquisizione. Tale trattato è entrato in vigore nel 2021 e fino a oggi è stato ratificato da 68 Paesi, tra i quali, tuttavia, non figura nessuno di quelli che detengono armi nucleari. Non lo ha ratificato nemmeno l’Italia, che ospita sul suo territorio un potente arsenale di armi nucleari statunitensi, stoccato nelle basi militari di Aviano e Ghedi: in caso di ratifica, Roma dovrebbe restituire tali armi a Washington, come peraltro auspicato dalla maggioranza degli italiani in tutti i sondaggi sul tema.
Cose importanti e allarmanti perché il pericolo c'è, grande, e il potere è in mano a dei folli.
Grazie per questo racconto, ci avete ricordato cose importanti...