Big Ivan e l'orso polare (1)
Una storia che sa di scienziati pentiti, piloti eroici e distruzione totale
Prima puntata di due
Unione Sovietica, 1961
Lo scienziato rincasava quella sera d’inizio ottobre con più affanno del solito, camminando lento per le vie di quella città chiusa e cancellata dalle mappe, Arzamas-16, un posto che gli pareva sempre più simile a una città fantasma, a una prigione, a un girone infernale. La giornata di lavoro era stata lunga e faticosa come tutte le altre. Solo che lui, quella sera, si sentiva gravato come mai prima da un peso insopportabile.
Molti anni addietro, quando il governo sovietico gli aveva proposto di partecipare con un ruolo di primo piano al progetto di costruzione della bomba termonucleare, evoluzione della bomba atomica a fissione, si era sentito profondamente onorato. Gli americani ci stavano già lavorando, e a lui era parso di poter dare in quel modo il proprio contributo alla sicurezza della nazione. Erano riusciti a testare con successo la prima bomba termonucleare nel 1953, e tutti, lui per primo, avevano festeggiato, pieni di soddisfazione.
Solo che poi le cose avevano preso velocità. Troppa velocità. Fino ad arrivare, in quel 1961 infausto, a quell’ultimo, folle esperimento, cui lui aveva deciso di prendere parte non più per spirito patriottico, ormai del tutto svanito sotto i colpi di una consapevolezza sempre più destabilizzante, ma per evitare che si trasformasse nel primo, fatale passo verso la distruzione del mondo.
La nuova bomba termonucleare che il governo si apprestava a sperimentare era troppo grande. La più grande mai progettata dall’uomo. Un vero e proprio mostro. L’esplosione avrebbe liberato un’energia di cento megatoni, seimila volte quella di Hiroshima. Gli effetti sarebbero stati devastanti, con un raggio di distruzione totale pari ad almeno cento chilometri, forse di più. I calcoli che aveva effettuato quel giorno parlavano chiaro. La ricaduta di materiale radioattivo, interamente sul suolo di quella stessa patria che teoricamente avrebbero dovuto difendere, sarebbe stata enorme, intollerabile, e poco importava che avvenisse in un arcipelago artico disabitato. L’idea che soprattutto attraverso il suo personale contributo scientifico si fosse arrivati ormai tanto vicini a produrre una tale mostruosità lo lasciava affranto, pressoché esanime.
- Caro, cosa c’è? - gli domandò la moglie allarmata quando lo vide entrare in casa, pallido come un morto.
- Il mondo rischia di entrare in una spirale di distruzione totale - rispose Andrej Sacharov con un filo di voce. - E la colpa è mia.
Il maggiore dell’aeronautica militare Andrei Durnovtsev aveva dormito bene, quella notte. Il sonno del giusto. Il sonno del futuro eroe. Quando il 30 ottobre 1961 si svegliò in una delle migliori camere della base aerea di Olenya, sulla penisola di Kola, decise di concedersi una colazione particolarmente abbondante, a base di pane nero, salsiccia e frittelle al formaggio. C’era una possibilità su due che fosse l’ultima della sua vita, pensò, e non era il caso di lesinare.
Dopo la colazione raggiunse la pista. Il bombardiere Tupolev Tu-95 luccicava sotto i suoi occhi, rivestito per l’occasione da una speciale vernice riflettente che avrebbe dovuto garantire la protezione dell’equipaggio dalle radiazioni, dopo l’esplosione. Ma il maggiore ci credeva poco, e in ogni caso poco gli importava. Era pronto a morire per la patria, ed era la sola cosa che contava.
La bomba, nome in codice Big Ivan, era agganciata sotto la pancia del velivolo. Sembrava un cucciolo intento a dormicchiare pacificamente all’ombra protettiva della madre. Ma non era un cucciolo. Tutt’altro. Quella bomba, lunga otto metri e larga due, era talmente grande che, per consentire al bombardiere di trasportarla, era stato necessario asportare i portelloni del vano bombe e i serbatoi secondari della fusoliera. E avrebbe dovuto essere ancora più grande, se non fosse stato per quello scienziato codardo che, dopo averla progettata, aveva tirato indietro la mano e, spaventato, aveva chiesto con insistenza e infine ottenuto all’ultimo momento che la potenza di Big Ivan venisse dimezzata: da cento megatoni a cinquanta. Rimaneva comunque la bomba più potente mai fabbricata, e sarebbe stato lui a sganciarla. Questo al maggiore bastava per morire sereno, con la certezza di entrare nella storia.
Osservò gli altri membri dell’equipaggio salire a bordo e infine salì anche lui. Prese posto alla plancia di comando e attese il segnale di via libera. Quando arrivò erano le 9:34 e il cielo era pieno di nubi. Ma la più grande, quella a forma di fungo, non si vedeva ancora. Avrebbe fatto la sua accecante comparsa in capo a due ore, quelle necessarie al bombardiere per coprire gli ottocento chilometri che separavano la base aerea di Olenya dal punto in cui Big Ivan doveva esplodere, ai confini della nazione e del mondo, sopra la baia di Mitjušicha, nell’arcipelago di Novaja Zemlja. Oltre il circolo polare artico.
L’orso si aggirava sulla banchisa ghiacciata a passo spedito, muovendo senza alcuna fatica la sua enorme massa bianca. Era il più grande orso del circondario. La sua specie non aveva rivali e lui non ne aveva tra gli altri orsi. Era il sovrano indiscusso di quel mondo freddo e ostile.
La vita in quel territorio sconfinato era dura ma possibile. Non per nulla era da vent’anni che lui lo abitava. Ne conosceva ogni lembo, ogni anfratto, ogni arbusto. Sapeva dove si cacciava meglio, e il cibo non gli era mai mancato.
Ora si stava muovendo proprio su uno dei terreni di caccia migliori, e non ci mise molto a fiutare l’odore di una foca sulla banchisa. Quella si accorse di lui e, terrorizzata, si gettò in acqua attraverso una spaccatura nel ghiaccio. L’orso raggiunse in pochi balzi la spaccatura e si limitò ad appostarsi, restando in ascolto dei movimenti che la foca faceva nell’acqua, sotto il ghiaccio. Sapeva che prima o dopo avrebbe dovuto riemergere per respirare, e allora l’avrebbe uccisa con una violenta zampata, per poi cibarsi a sazietà del suo nutriente grasso.
Mentre attendeva paziente il momento propizio, l’orso si accorse che sotto il ghiaccio si muoveva anche un altro animale. Era un giovane narvalo. A quel punto, attirato dalla preda più grossa, lasciò perdere la foca e cercò un punto in cui gli fosse possibile entrare in acqua di soppiatto. Lo trovò e, con un’agilità ancora maggiore di quella mostrata sulla banchisa, iniziò a nuotare finché raggiunse il narvalo. Quello, colto di sorpresa, provò a difendersi con la lunga zanna. Ma era giovane e inesperto, e l’orso, che aveva condotto e vinto centinaia di quei combattimenti, schivò agilmente i suoi fendenti e riuscì a colpirlo varie volte nel punto più vulnerabile, la pancia. Non ci mise molto a ucciderlo. A quel punto trascinò la carcassa del narvalo sulla banchisa e si apprestò soddisfatto a consumare il lauto pasto.
Fu allora che il mondo di cui quell’orso era il sovrano diventò per un istante sola luce. E poi, prima che lui potesse accorgersene, scomparve per sempre.
Fine della prima puntata
La seconda verrà pubblicata il 18 gennaio 2024
Finalmente qualcuno che si ricorda di Sacharov, che si pentì in modo molto più convinto - e rischioso - di Oppenheimer...
Agghiacciante (non per la presenza del ghiaccio di sicuro). Attendo, con speranza di fallimento della bomba, la seconda parte.