Correva la fine dell’estate 2020 quando nella casella di posta elettronica di Tersite Rossi giunse la lettera di un tale di cui, per ora, ometteremo il nome (che in ogni caso è falso).
Una lettera strana.
Una lettera così vera da sembrare falsa, pure lei.
Una lettera che iniziava così:
Vi allego qui dieci racconti. Sono storie vere. Storie mie. Mi sono capitate e le ho scritte. Ho provato a mandarli in giro, ma quelle teste di cazzo degli editori o non mi hanno risposto (la maggior parte) o mi hanno detto che è roba troppo forte. Stronzate. I miei racconti faranno anche cagare, ma non sono peggio della merda che si può leggere oggi aprendo a caso qualsiasi novità sullo scaffale. Comunque, di pubblicare mi hanno fatto passare la voglia e nemmeno più ricordo perché mi era venuta. Forse ero troppo sbronzo.
Un mitomane, ci dicemmo dopo aver letto queste prime righe.
Un pazzo.
Ci sbagliavamo.
E di grosso.
Ecco come proseguiva la lettera:
Così stavo per buttare tutto nel cesso quando di colpo mi siete venuti in mente voi. Qualche mese fa mi sono ritrovato per caso alla presentazione di un vostro romanzo, da una mia amica libraia. L’unica amica libraia che ho e l’unica libreria che frequento. E solo perché vorrei farmi lei, la libraia, che purtroppo non me la dà, perché il suo uomo ideale fa lo scrittore. Ecco, giusto, è per questo che avevo deciso di mettermi a scrivere: per riuscire a farmela. Ma sto divagando.
Vi dicevo che quella volta mi siete capitati davanti e ho anche provato ad ascoltarvi, nonostante foste due uomini, peraltro pure bruttarelli. Non ho capito un cazzo di quello che dicevate, e non perché fossi sbronzo come in effetti ero (la sbronza in genere mi rende più lucido), ma perché giocavate a fare gli intellettuali e parlavate difficile, e io a scuola andavo male. Però una cosa che avete detto, una sola, l’ho capita bene. Dicevate che i vostri romanzi sono pieni di perdenti e che perdere è una questione di metodo. Lì sì che vi ho capiti, perché parlavate anche di me. E dicevate che anche voi vi sentite dei perdenti (come in effetti dimostravano in modo lampante i quattro gatti, me compreso, che c’erano a quella presentazione). A quel punto mi siete andati a genio, nonostante siate scrittori.
Ecco perché, anziché buttarli, ho deciso di mandare a voi i miei racconti. Provateci voi, che siete del mestiere, a pubblicarli. E, se ci riuscite, non ditemelo nemmeno e tenetevi tutto quello che non vi porteranno: fama e denaro. La sola cosa che vi chiedo è di pubblicarli nell’ordine in cui li trovate, inclusi dedica e citazione iniziale. Riguardo al testo, forse ci sarà da correggere qualche errore di battitura o grammaticale: scrivevo quasi sempre da sbronzo, per cui ero lucido, sì, ma senza il controllo ottimale delle dita... Per il resto, cambiate il meno possibile, non perché sia geloso di quello che ho scritto, ma perché penso che il risultato sarebbe una merda comunque. Decidete voi il titolo, la copertina e qualsiasi altra cazzata necessaria. E, come nome dell’autore, usate pure [omissis] (insieme al vostro: a quel punto vi meritereste di comparire). Si tratta di un nome falso, come tutti quelli che compaiono nei racconti. Non provate a cercarmi, quindi. Sono un investigatore privato e so bene come far perdere le mie tracce.
Mi pare tutto.
Vi ringrazio in anticipo, perché mi sono levato dalle palle una grana. Adesso posso tornare a bere in pace.
Statemi bene, scrittori.
Questa strana lettera ci lasciò spiazzati.
E parecchio indecisi.
Non avevamo idea di cosa fare, con quella e con le storie allegate a essa.
E voi?
Voi, al nostro posto, cosa avreste fatto?
Voglio leggerli
cercherei di farli pubblicare, se vi sembra meritino, e un editore coraggioso esiste, magari solo un e-book.
voi fate la presentazione e poi il tempo dirà, se avrà voglia di parlare