Il mio collega, preda di un forte annebbiamento postprandiale, crollò di colpo con la faccia sulla scrivania e iniziò a russare. Fu quel tonfo a scuotermi. Anch’io avevo le palpebre a mezz’asta, gli occhi offesi dal bagliore vacuo e lattiginoso del monitor, e nemmeno io avevo nulla da fare. Per evitare di finire come lui, presi a leggere il libro che avevo con me. Tenevo sempre un libro a portata di mano, specialmente in ufficio. Stavolta era Thoreau.
“Essere svegli significa essere vivi. Io non ho ancora incontrato un uomo che fosse del tutto sveglio”.
Da quanto tempo dormivo?
“Andai nei boschi perché desideravo vivere in modo autentico, per non scoprire, in punto di morte, di non aver vissuto”.
Da quanto tempo ero un morto in vita?
Avevo quarantacinque anni e mi venne in mente anche Dante.
“Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura, / ché la diritta via era smarrita”.
Ma allora, mi domandai, i boschi, le selve, eran posti da frequentare o no? Ai tempi di Dante, con la modernità ancora di là da venire, si preferiva starne lontani. A quelli di Thoreau, mezzo millennio dopo, eran già diventati quelli, i boschi, la via smarrita. Lo diceva anche Čechov.
“Ti si accostano ghignando, ti guardano in cagnesco, ti squadrano, ti etichettano: «Questo, è uno psicopatico» oppure «Quello è un parolaio». E quando non sanno che etichetta appiccicarti in fronte, dicono: «È un uomo strano, proprio strano!». Amo le foreste: è strano. Non mangio carne: anche questo è strano. Un rapporto diretto, pulito, libero con la natura e con la gente non c’è più…”.
Oltre un secolo dopo, le parole di Thoreau e Čechov suonavano ancor più vere. Dalla finestra dell’ufficio vedevo solo cemento. Dov’erano i boschi? Oggi Dante non potrebbe perdere la retta via della civiltà, non potrebbe smarrirsi nella selva, nemmeno se lo volesse...
Suonò il telefono. Chiusi il libro e, sventurato, risposi. Il lavoro riprendeva, la non vita pure.
Tre ore dopo, lasciai l’ufficio e misi piede in strada.
Mentre camminavo, coi sensi ottusi dalle otto ore passate su inutili scartoffie digitali, di colpo iniziò a piovere. Un acquazzone estivo. Avevo sempre un ombrello con me, perché non si poteva mai sapere e bagnarsi era cosa da evitare a tutti i costi. Con gesto automatico, lo sfilai dallo zaino e feci per aprirlo. Ma poi mi arrestai. Fu Thoreau a fermare la mia mano. Fu Čechov a farle cambiare intenzioni. No, mi dissero, tienilo chiuso, mettilo via.
Lasciai che la pioggia mi cadesse addosso, forte, abbondante. Non ricordavo l’ultima volta che mi era caduta addosso così tanta pioggia. Il contatto con le gocce era diretto, pulito, libero. Cancellando mentalmente il puzzo dell’asfalto, riuscii a sentire l’odore del bosco. L’effetto fu immediato. Alle cinque di quel pomeriggio, finalmente mi svegliai. Dormivo da anni.
- Perché sei tutto bagnato? - mi domandò mia moglie quando mi vide rincasare.
- Non ho aperto l’ombrello - le dissi.
- E perché?
Non risposi. Mi tolsi i vestiti zuppi e rimasi nudo davanti a lei.
- Ma cosa fai? - mi domandò ancor più attonita.
- Vivo - le dissi.
Dopo l’amore, ce ne restammo tutti e due distesi sul divano.
Fuori aveva smesso di piovere e l’ultimo sole sbucava timido tra le nuvole residue.
- Dov’eri finito in questi anni? - mi domandò con un sussurro.
La luce della sera era ancor più bella, filtrata dall’umidità. Si posava sul suo viso e la rendeva più giovane dei suoi trentotto anni.
Non facevamo sesso da quando ne aveva trenta, più o meno. Non ne avevo avuto più voglia.
- Sotto l’ombrello - risposi.
La mattina dopo mi svegliai, aprii la finestra e guardai il cielo.
Sorrisi.
Prometteva pioggia.
Bella! Io amo Thoreau
Bellissimo, viva la pioggia (non è lei che fa danni, è l'uomo)