Quella mattina mi alzai alla solita ora, molto presto, pronto per la nuova giornata di lavoro. Ero un pendolare. Per arrivare in ufficio mi ci volevano sessanta minuti, uno più, uno meno: prima in macchina, poi in treno, poi a piedi.
Feci la mia solita colazione: frutta, yogurt coi cereali, caffè coi biscotti. Ascoltai il solito programma radiofonico: notizie dal mondo e dall’Italia; le solite, pure quelle. Poi uscii.
La prima occhiata me la gettò il vicino di casa, un pensionato che ogni mattina faceva la sua passeggiata di salute, illudendosi di rinviare in quel modo l’appuntamento con la morte. Io andavo verso la macchina, parcheggiata sul viale, e lui rincasava. Gli sorrisi, ma lui non fece altrettanto. Mi riservò invece quello sguardo strano, insistente. Andavo di fretta e fui io, allontanandomi, a porre fine a quel contatto visivo. Non avevo saputo leggervi un sentimento preciso. Potevo giurare, però, che non era niente di buono. Accesi l’auto e diedi gas, dimenticando in pochi secondi il vicino e i suoi occhi cisposi.
Raggiunsi la stazione dopo il solito quarto d’ora di traffico e sorpassi azzardati. Mi precipitai al binario di corsa, trenta secondi prima che il treno vi si fermasse. Fino a quel momento, non avevo avuto tempo di guardarmi attorno. Salii a bordo e fu solo dopo aver preso posto che mi accorsi delle nuove occhiate. Le due persone sedute di fronte a me, un uomo e una donna, visti e rivisti ogni giorno lungo quel tragitto, con i quali tuttavia non avevo alcuna confidenza, mi stavano fissando. Uno sguardo severo, duro. La cosa che più mi colpì, però, fu l’insistenza: quando incrociai i loro occhi, loro non abbassarono i propri, come sempre in casi simili. Così alla fine fui costretto a farlo io, imbarazzato. Quando rialzai lo sguardo, timoroso di incrociarli di nuovo, mi voltai verso altri passeggeri, seduti più distanti. Anche loro mi fissavano, allo stesso modo. Erano occhi che mi rimproveravano qualcosa. Tutti quanti.
Sempre più confuso, d’istinto mi portai la mano al viso e la passai su naso e bocca. Forse l’oggetto di quelle occhiate era del muco, o qualche residuo di cibo. Ma le mie dita non trovarono nulla di simile. Non mi restò che recuperare il romanzo di turno dalla mia borsa e immergermi nella lettura, cercando di non badare agli sguardi che, lo sentivo anche senza incrociarli, rimanevano affondati dentro di me, come lame.
Distratto, lessi poco e male. La cosa mi urtò, perché quei venticinque minuti di lettura erano in genere il momento più elettrizzante della mia mattinata. Il treno arrivò a destinazione, in città, e a quel punto misi via il libro e rialzai gli occhi. Di nuovo, incontrai quelli altrui. Un mare di occhi puntati su di me. Ebbi la sensazione che l’intero treno mi stesse osservando. Mi precipitai fuori dal vagone e quella sensazione si allargò all’intera stazione. Raggiunsi quasi di corsa l’edificio dove aveva sede il mio ufficio, sforzandomi di non guardare nessuno per strada.
Lavoravo come funzionario pubblico di un’agenzia dal nome altisonante, ma sostanzialmente inutile agli scopi dell’amministrazione. Era un covo di raccomandati e imboscati. Ci stavo bene. Al mio piano, lavoravamo in sette. Quando varcai la soglia, fui lieto di non trovare nessuno sulla mia strada, nei corridoi. Raggiunsi il mio ufficio, posai la borsa, mi levai la giacca e mi precipitai in bagno. Volevo lo specchio.
Guardai e riguardai la mia immagine riflessa, anche da molto vicino. Il mio volto non aveva assolutamente niente che non andasse. O meglio, tutto non andava: le sopracciglia troppo folte, il naso troppo grosso, le labbra troppo sottili, la calvizie incipiente, il lieve strabismo. Ero brutto, ma lo ero da sempre. Non era certo quello il motivo per cui, quella mattina, tutti quanti mi fissavano torvi. Mi sciacquai la faccia e poi mi guardai di nuovo, scuotendo la testa: forse mi ero immaginato tutto. O per lo meno lo avevo ingigantito. Decisi che doveva essere proprio così e uscii dal bagno.
Fino alle nove e mezza rimasi chiuso nel mio ufficio a smaltire la posta elettronica e a fare qualche telefonata. Poi, usando la chat interna, proposi alla collega dell’ufficio di fianco di andare a bere il caffè insieme. “Certamente”, rispose lei, “dammi cinque minuti”. Gliene avrei dati anche mille, pensai, purché servisse a portarmela a letto, una buona volta. Erano sei mesi, da quando lei aveva iniziato a lavorare con noi, che me la faceva annusare senza esito, nonostante fosse più brutta di me e non avesse alcuna speranza di trovare di meglio, né lì dentro, né fuori.
Cinque minuti dopo, puntuale, si presentò alla porta. Appena mi vide, rimase pietrificata. Non disse nulla. Soltanto, mi fissò a lungo. Nemmeno io parlai. Dopo un tempo che non riuscii a quantificare, ma che mi parve interminabile, ricevetti una telefonata e distolsi lo sguardo da lei, che a quel punto approfittò per andarsene, chiudendo rumorosamente la porta alle sue spalle.
Rimasi barricato in ufficio per tutta la mattina. Evitare di farmi vedere era l’unica soluzione. Quel giorno, per qualche oscura ragione avente a che fare con la mia persona, suscitavo inevitabilmente il biasimo muto di chiunque incontrassi sulla mia strada. E la cosa stava cominciando ad angosciarmi.
Mi dissi che non dovevo farmi prendere dall’ansia e cercai di analizzare meglio quello che mi era capitato. Il mio vicino, i passeggeri del treno, la mia collega. Tutti, a rifletterci bene, avevano in effetti qualcosa da rimproverarmi. Al primo era da giorni che occupavo sistematicamente il parcheggio nel viale sotto casa, a lui riservato dai taciti accordi di vicinato, perché qualcun altro aveva preso a occupare quello riservato a me. Riguardo ai passeggeri, era vero che, per evitare di perdere il treno, avevo attraversato a piedi i binari, sotto gli occhi di tutti, senza servirmi del sottopassaggio. Mentre nel caso della mia collega, avevo capito solo dopo la sua uscita di scena che, quando era entrata senza bussare, probabilmente era riuscita a buttare l’occhio sulla schermata del mio computer, dove campeggiava, in quel momento, un nudo di donna in posizione fin troppo esplicita.
Nonostante la colossale figuraccia, esultai. Forse era stato solo un caso. Forse non era la mia persona a suscitare di per sé gli sguardi sdegnati del prossimo. Quando arrivò il momento della pausa pranzo, lo affrontai sollevato: avrei cercato di comportarmi nel modo più corretto ed educato con tutti, e nulla di male mi sarebbe accaduto.
Fu un calvario. Appena entrai in mensa, ebbi la sensazione che il silenzio fosse calato di colpo. Mi guardai attorno e di nuovo m’imbattei negli sguardi arcigni di chiunque. Mi servii, mi sedetti e, senza che nessuno mi rivolgesse la parola, seppellito dalle occhiate malevole, consumai in fretta e furia il mio pasto. Poi me ne andai precipitosamente per tornare a rinchiudermi nel mio ufficio, vergognandomi come un ladro, senza sapere di cosa.
Mi sedetti e mi presi la testa fra le mani, terrorizzato da quello che ancora mi aspettava: la riunione coi dirigenti era prevista di lì a mezzora. Pensai di fingere un malore e tornare a casa. Ma poi mi dissi che, se ce l’avessero avuta pure loro con me, quella decisione non avrebbe fatto altro che aggravare la mia posizione, semplicemente rinviando l’inevitabile resa dei conti. Alle tre di pomeriggio, mi alzai e lasciai la mia postazione, col passo del condannato a morte.
Non morii, ma sarebbe stato meglio. Fu una tortura. La scena si ripeté analoga a tutte quelle che l’avevano preceduta, solo più imbarazzante e dolorosa. Dal mio ingresso in sala riunioni, gli occhi di tutti, dirigenti in primis, mi si piantarono addosso carichi non più soltanto di rimprovero, ma di un sentimento che arrivai a definire odio. Odio puro. Nessuno mi parlò. Si limitarono a fissarmi per tutto il tempo. Fui io, mio malgrado, a dover parlare a un certo punto, per relazionare sulla mia attività di quel mese. E più parlavo, più mi sentivo odiato. Quando la riunione si concluse, senza guardare né salutare nessuno, mi allontanai come fossi braccato da una bestia feroce. Recuperai dal mio ufficio borsa e giacca e mi precipitai fuori, in strada, boccheggiante.
Anche lì, però - come poi, di nuovo, in stazione e sul treno - ebbi la sensazione opprimente che tutti mi guardassero, sempre più minacciosi, sempre più cattivi. Giunsi alla macchina in apnea, misi in moto e finalmente arrivai a casa. Quando entrai e richiusi con fragore la porta dietro di me, nella solitudine delle mura domestiche ebbi la sensazione, senza più selve di occhi puntati addosso come fucili, di essere scampato a un pericolo orribile, mortale.
Il sollievo, tuttavia, durò poco. Iniziai a pensare con terrore al giorno successivo, alla possibilità che tutto si ripetesse di nuovo, ancora una volta. Per sempre.
Quella notte non chiusi occhio, girandomi e rigirandomi nel letto, a scatti furiosi, come se volessi levarmi di dosso, una volta per tutte, la colpa imperdonabile, e imponderabile, di cui ero accusato. E funzionò.
Quando, la mattina dopo, pallido e tremante, incrociai gli occhi del vicino, quello mi salutò sorridente. Mentre sul binario attendevo il treno, mi accorsi con grande gioia che nessuno, proprio nessuno, badava a me. Fu dopo essere salito a bordo e aver preso posto che finalmente capii. Capii cos’era accaduto il giorno prima. E cosa accadeva adesso.
La gente seduta vicino a me stava fissando un tizio poco distante. Allargai lo sguardo e vidi che tutti lo fissavano. Torvi. Osservai bene il tizio. Non lo conoscevo. Non aveva assolutamente niente che non andasse. Presi a fissarlo anch’io. Torvo. Più torvo che potevo. In capo a sera, si sarebbe certo finiti per odiarlo.