Lo spazzino e il capotreno
Una storia che sa di mozziconi gettati a terra, sciacquoni non tirati e lavori sporchi che qualcuno deve pur fare
Vide a terra un mozzicone di sigaretta e imprecò due volte. Non solo perché era stato gettato a terra, ma perché era un mozzicone. Che cazzo, esclamò tra sé, si sapeva che era vietato fumare, sul treno. Si chinò, lo raccolse con la mano guantata e lo gettò nel contenitore dei rifiuti indifferenziati innestato sul carrellino.
Guardò fuori. Una signora molto anziana avanzava lenta sulla banchina trascinandosi dietro un valigione pesantissimo. Nemmeno le rotelle parevano alleviarle la fatica. Per un attimo fu tentato di scendere dal treno e aiutarla a fare le scale. Il mezzo era fermo e lo sarebbe rimasto ancora per parecchio. Poi però desistette. Sarebbe stato abbandono del posto di lavoro, e lui non poteva permettersi di perderlo, quel lavoro.
Distolse lo sguardo e andò avanti nelle operazioni di pulizia. Raccolse da terra la carta di una caramella, un giornale, un pezzo di pane, una buccia di banana, il calzino di un neonato. Differenziò quello che poté.
Arrivò in fondo all’ultimo vagone, dove sedeva il capotreno. Era una donna molto giovane. Da quando lui aveva iniziato a lavorare su quella linea, si erano incrociati più volte. Si salutarono.
- Tutto a posto? - gli domandò lei, sollevando lo sguardo dalle carte che era intenta a leggere.
- Il solito - rispose lui.
- Incivili?
- Già.
La donna scosse la testa.
- Figurati che l’altro giorno ho dovuto far salire la polizia ferroviaria... - disse.
- Ah. Perché?
- Due tizi mi hanno messo le mani addosso. Erano ubriachi...
- Balordi… Stranieri?
- Sì.
Lui si vergognò. Si sentiva in colpa ogni volta che veniva a sapere di stranieri che facevano danni, rubavano, menavano. Era in Italia da dieci anni, ormai, ma ancora si sentiva un forestiero. Un negro.
- Vado a finire il lavoro - disse, lo sguardo basso, ancora pieno di vergogna.
- Cyril? - lo chiamò lei quando lui era già a qualche metro di distanza.
Cyril si voltò.
- Sì?
- Sei un bravo collega.
Lui le sorrise. Poi riprese a camminare.
Raggiunse rapido l’altro capo del treno. Era il momento del detersivo, adesso. Ne spruzzò quanto bastava sul panno di carta-tessuto e prese a pulire le vetrate, una dopo l’altra. A un certo punto si chiese se la macchia che aveva davanti agli occhi, sul vetro, fosse uno sputo. La guardò meglio. Sì, lo era. Pulì anche quella.
Poi fu la volta dei sedili, quindi dei pavimenti. Quando finì di pulire e disinfettare ogni superficie, si guardò attorno soddisfatto. Ora quel vagone era davvero pulito. Gliene restavano altri sette.
Fuori, la banchina era vuota, eccezion fatta per una coppia di giovani che si baciavano, seduti sull’ultima panca, appartati. Cyril pensò a sua moglie. Per lei era stata ancora più dura che per lui. Di lavoro non ne aveva trovato. Adesso si occupava del bambino, e lui di entrambi loro. Andava bene così. C’era chi stava molto peggio, tra i negri.
Tra un vagone e l’altro gli toccavano anche i bagni, naturalmente. Aprì il primo ed ebbe un moto di repulsione. Avevano di nuovo cagato senza tirare l’acqua. Perché lo facevano? Cosa costava premere un pulsante? La gente passava metà del proprio tempo a premere le dita sugli schermi degli smartphone, eppure c’era chi faceva fatica a premere il pulsante di uno sciacquone. Cyril sospettava che lo facessero apposta, sadici, pensando poi a quelli come lui che dovevano pulire. Piccoli dispetti di quell’eterna guerra fra poveri che era diventata ormai la società. Perché se viaggiavi su un treno regionale scassato come quello, di certo ricco non eri. Magari quelli che non tiravano l’acqua erano negri come lui.
Aprì il finestrino, tirò lo sciacquone e poi si diede da fare. La pulizia dei bagni, durante i primi tempi, era sempre stato il momento peggiore, quello che più volte l’aveva spinto fino all’idea di licenziarsi. Trovare la merda nel water non era nulla. Aveva pulito merda, vomito e piscio ovunque, in quei bagni: sul pavimento, sulle pareti, persino nei lavandini. Ma per uno come lui licenziarsi era un’idea folle, evidentemente. E presto aveva fatto in modo di abituarsi.
Quando arrivò di nuovo in fondo all’ultimo vagone, erano passate due ore. Adesso il mezzo era decente. Più che decente. Era pulito. Anche se lo sarebbe rimasto per poco. Il tempo di far salire i primi passeggeri.
- Finito? - gli domandò sorridente il capotreno, ancora lì con le sue carte.
- Sì - rispose lui.
- Ti va un caffè?
Cyril la guardò sorpreso.
- Alla macchinetta qui fuori - disse lei. - Facciamo presto.
- Grazie, ok.
Lei aprì le porte del treno e lo aiutò a far scendere il carrellino, poi fece strada fino alla macchinetta.
Sulla banchina c’era gente, adesso. Il treno sarebbe partito fra una decina di minuti, e i primi passeggeri già cominciavano a salire. Cyril ebbe la sensazione che alcuni di loro li fissassero. Erano una strana coppia, in effetti. Una giovane donna in divisa da capotreno e un negro di mezza età in divisa da spazzino.
- Moglie e bimbo come stanno? - gli domandò lei mentre gli passava il caffè.
Cyril, di nuovo, si sentì in colpa. Quella donna, con cui aveva parlato in tutto cinque o sei volte, scambiando sempre poche battute, non solo si ricordava il suo nome, ma persino che avesse una moglie e un figlio.
- Nessun problema, spero - disse lei, vedendo che Cyril, faccia adombrata, non rispondeva.
- No, no. Stanno bene, grazie. È solo che... non mi ricordo il tuo nome. Scusa.
Lei sorrise.
- Tania. Mi chiamo Tania.
Le sorrise anche lui.
- E tu? - le chiese. - Hai figli?
- Io? No. Non ho nemmeno un uomo. Vivo con una donna.
Una donna, pensò Cyril. Certo, una donna.
Si sorrisero di nuovo.
- Ora devo andare - disse Tania, gettando il bicchierino vuoto nel contenitore della plastica.
- Anch’io - rispose Cyril. - Grazie per il caffè, Tania.
- Figurati. Alla prossima.
Lei risalì a bordo, mentre lui si spostò col carrellino verso l’altro binario, dove in quel momento arrivava un altro treno. Il nuovo treno da pulire. Il terzo di giornata. Prima di finire il turno, gli toccavano ancora quello e poi un altro.
Attese che la gente scendesse. Poi issò il carrellino e salì.
Si spostò verso il fondo del mezzo, guardandosi attorno.
Era il solito schifo.
Però era il suo lavoro.
E lui, come ogni giorno, come meglio poteva, lo avrebbe fatto.
Avete il solito dono di dipingere la realtà con quattro pennellate
Viva i capotreno donne!