Fino ai primi anni di università, Tommaso non s’era mai posto il problema di cosa fare da grande. Quale lavoro. Per lui il futuro era sempre stato solo e soltanto studio.
Si ricordava ancora bene di quando, da piccolo, sua madre lo portava ai giardini pubblici, sui quali si affacciava l’edificio grigio e austero sede del liceo classico. “Tu studierai lì”, gli aveva detto un giorno. E lui aveva preso nota, senza opporsi. “E poi farai l’università”, aveva aggiunto la donna, allora casalinga, poi operaia per necessità, dato che lo stipendio da impiegato del marito non bastava. E lui aveva preso nota pure di questo, senza opporsi.
Aveva scelto il corso di laurea che meno gli era parso orientato verso una qualche professione precisa, sembrandogli all’opposto multidisciplinare e quasi eclettico: scienze della comunicazione. Mentre studiava e superava gli esami a pieni voti, rifletté che nessuno, né la madre, né il padre, né altri, gli aveva mai indicato la strada da percorrere dopo l’università. Così aveva provato lui, per la prima volta, a immaginarsi lavoratore. Non gli era venuto in mente altro che il giornalismo. Forse perché, in fondo, non gli pareva nemmeno un lavoro.
Dopo essersi laureato con lode, provò a proporsi ad alcune redazioni. Quotidiani locali, per lo più. Anche una radio. Non gli piacque. Non il lavoro di giornalista di per sé, che comunque era precario, sfruttato e sottopagato. Non era questo. Non gli piacque il lavoro in genere. Non gli piaceva dover mandare in giro il proprio curriculum: gli pareva di vendersi. Non gli piaceva l’idea di far parte di un’attività economica: gli pareva volgare. Non gli piaceva l’idea di usare le proprie energie mentali per partorire contenuti effimeri e caduchi: gli pareva uno spreco. Così, alla fine, smise di fare giornalismo. Smise di lavorare del tutto. Tornò dedicarsi a quella che per lui era la sola attività degna d’un uomo: lo studio.
Se lo poteva permettere, per via di un colpo di fortuna. Il padre, proprio mentre lui passava insoddisfatto da una redazione all’altra, aveva ereditato una grossa fortuna da uno zio americano. Molto grossa. “Papà, io a lavorare mi sto sciupando”. “Lo vedo, figlio mio. Lo vedo”. “Papà, io voglio tornare a studiare”. “Va bene, figlio mio. Va bene”.
All’inizio, ci fu ancora bisogno della cornice istituzionale. Quindi s’iscrisse a un dottorato, in Filosofia della comunicazione, e lo portò a termine brillantemente. Dopodiché, nonostante le insistenze di alcuni professori di grosso calibro, Tommaso non provò nemmeno a rientrare nel mondo del lavoro, intraprendendo la prospettata carriera universitaria. Il solo pensiero lo nauseava. Il padre nel frattempo aveva fatto alcuni investimenti azzeccati, e quella di famiglia era diventata una vera e propria fortuna. “Papà, io a lavorare mi sciupo”. “Lo so, figlio mio, lo so”. “Papà, io voglio soltanto studiare”. “Va bene, figlio mio, va bene”.
Dal padre ottenne un assegno mensile e i soldi per comprarsi un appartamento. Nulla di esorbitante. Tommaso viveva con poco. Studiare non era costoso. Terminato il dottorato, s’era convinto di non sapere niente. Aveva giusto approfondito un ramo del sapere, ma s’era accorto di quante lacune avesse riguardo a tutti gli altri. Pianificò a tavolino un piano di studi dettagliato che da lì a dieci anni lo avrebbe portato ad acquisire buoni rudimenti in tutte le principali discipline. Studiava, a casa o in biblioteca, dieci ore al giorno, tutti i giorni eccetto la domenica pomeriggio, quando si concedeva lunghe passeggiate urbane. Non faceva altro. Poi, al terzo anno di questa sua personale università dello scibile, proprio quando il padre stava cominciando a ricredersi sul modello di vita solitaria e improduttiva, e forse insana, che col suo assegno aveva permesso al figlio di scegliersi, Tommaso incontrò Anita.
Accadde, come forse era inevitabile, in biblioteca. Anita preparava la tesi per la sua laurea in scienze politiche, e più volte aveva sogguardato curiosa le attività di quell’ultratrentenne etereo e misterioso che non mancava quasi mai l’appuntamento quotidiano con la biblioteca. Era in età da lavoro, ma non lavorava. Studiava, ma per cosa? Lo aveva sorpreso a volte con in mano libri di storia antica, altre volte di geometria, altre di lettere, altre di astronomia. Alla fine, vinta da una curiosità fattasi irreprimibile, lo avvicinò e glielo domandò. Lui la mise a conoscenza del mastodontico piano di studi nel quale era impegnato, parlandone come fosse la cosa più naturale del mondo. “Perché lo fai?”, gli chiese Anita. “Per amore. E per odio”. “E di cosa?”. “Dello studio. E del lavoro”. Anita ci pensò su, affascinata. “Allora sei un intellettuale”, gli disse. “Un intellettuale?”. “Sì. Ne ho conosciuti tanti finti, ma mai uno vero”. A Tommaso quel titolo non dispiacque. Sorrise ad Anita e prese nota, senza opporsi.
Anita si laureò e poi si trasferì a vivere nell’appartamento di Tommaso. Ai genitori di lui, e in particolare al padre, la ragazza piacque molto, e soprattutto piacque l’effetto che aveva avuto sul figlio. L’assegno mensile venne generosamente rimpinguato e il progetto di vita di Tommaso, che tanto piaceva ad Anita, non fu più messo in discussione dal genitore. Che adesso aveva trovato un modo per uscire dall’imbarazzo quando gli chiedevano cosa facesse il figlio, dando una risposta pronta e fiera. L’intellettuale.
Il cospicuo assegno che Tommaso riceveva dal padre permise anche ad Anita di disdegnare il mondo del lavoro e di diventare l’assistente del compagno. Formarono una straordinaria coppia di studiosi. Anche grazie all’aiuto di Anita, Tommaso portò a termine con grandi risultati il suo piano di studi decennale e a quel punto, alla soglia dei quarant’anni, gli si presentò il problema di cosa fare del resto della sua vita. Fu Anita a indicargli la via. “Un intellettuale non può solo studiare. Deve anche intervenire”. “Intervenire?”. “Sì. Scrivere. Dire la propria”. E Tommaso prese nota, senza opporsi.
Iniziò a scrivere opere di saggistica. Anita leggeva, editava, e poi mandava in giro a riviste e case editrici. Nessuno accettò di pubblicare nulla. Rispondevano che erano testi interessanti, punti di vista originali, che rivelavano una cultura vasta e non comune. Ma non sapevano dove metterli. La loro multidisciplinarietà li rendeva non collocabili. C’era anche qualche problema di metodo, dicevano. Troppi azzardi. “La verità è che non hai agganci, non hai padrini, hai lasciato da troppo tempo l’università e non hai un lavoro, e questo indispone gli editori”, spiegava Anita a Tommaso per non scoraggiarlo. Ma lui non era scoraggiato, solo annoiato. Decisero di cambiare ambito. Sempre di scrivere, si trattava. Ma non saggistica. Narrativa. Tommaso produsse in un paio d’anni tre romanzi e decine di racconti. Visionari e avanti di mezzo secolo, secondo Anita. Criptici, prolissi e inadatti al mercato, secondo gli editori. “Lasciamo perdere la scrittura”, propose a quel punto Anita a Tommaso. “C’è anche un altro modo di intervenire, per un intellettuale: l’impegno politico”. E lui di nuovo prese nota, senza opporsi.
Anita militava da tempo in un certo associazionismo politico radicale. Tommaso iniziò a seguirla nelle riunioni e nelle assemblee. Brillò, inizialmente. Finché si trattò di esporre le sue idee sul mondo e sull’uomo, e sulla vita dell’uomo nel mondo, della quale tanto Tommaso conosceva per averla studiata in ogni disciplina possibile, lasciò tutti a bocca aperta. Quando però si trattò di calare la teoria nella realtà, così complessa e ridondante, Tommaso entrò in crisi. Quando vide che le sue preziose idee dovevano sottoporsi a compromessi ed essere mercanteggiate e sacrificate sull’altare della maggioranza, si oppose. Criticò duramente i militanti, inclusa Anita. Definì ottusi e gretti i loro metodi, noiosi e triti i loro contenuti. Per Anita fu un duro colpo. Qualcosa fra loro si ruppe. E si lasciarono.
Forse fu proprio il dispiacere per quella rottura che portò il padre di Tommaso all’infarto, qualche tempo dopo. Morì, e in meno di un anno lo seguì la moglie. Tommaso ereditò tutto il patrimonio e rimase solo al mondo. Anche se lui solo non si sentiva. C’era sempre lo studio a tenergli compagnia. Giunto al mezzo secolo di vita, azzerò di nuovo tutto il suo sapere. Si accorse che quanto credeva certo era in realtà dubbio, quanto credeva completo era in realtà parziale, quanto credeva terminato era in realtà in mezzo a un guado. Il lavoro da fare era ancora enorme. Il piano di studi che s’impose stavolta fu ventennale.
Il giorno d’autunno che arrivò a ultimarlo, dopo due decenni di sforzi immani, Tommaso aveva settant’anni e uno stato di salute ormai compromesso. Guardò fuori dalla finestra del suo studio, circondato dai suoi libri. E sorrise. Non perché aveva finito. Da tempo aveva capito, e accettato senza crucci, che nemmeno quel piano di studi ventennale lo avrebbe mai portato a esaurire lo scibile. Sorrise perché il passo successivo, stavolta, sapeva qual era e lo aveva deciso lui, senza prendere nota da nessuno. Senza rimpianti, diede un colpo alla sedia dove s’era alzato in piedi e s’impiccò.
Sulla scrivania aveva lasciato un biglietto. “C’è chi vive per lavorare, senza mai farsi domande. Io ho vissuto per studiare, facendomene infinite. Il traguardo è lo stesso: morire ignoranti. Ma il percorso è diverso. E il percorso è più importante del traguardo”.
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