L'autostoppista
Una storia che sa di madri ottuse, piani di fuga e apparizioni notturne
Era una sera d’estate bollente persino lassù, tra quelle montagne. Anita guidava veloce la vecchia Ypsilon della madre. Ci era salita dopo aver litigato con lei. Donna ottusa che la vessava da quando era piccola, tentando in tutti i modi di inculcarle il futuro ruolo di brava mogliettina, capace di servire impeccabilmente casa, marito e figli. Come se si fosse ancora ai suoi tempi, quando a quel ruolo le donne si adattavano senza avere scelta, fino ad arrivare a crederlo importante, gratificante, giusto. Più maschiliste degli uomini, le donne di quelle montagne. Maschilismo femminile, lo chiamava Anita.
Lei non sarebbe diventata così. Lei se ne sarebbe andata presto, anzi subito. Niente la legava a quel posto, ormai. Due mesi prima aveva finalmente terminato quella stupida scuola cui la madre l’aveva costretta a iscriversi cinque anni prima, acquisendo un diploma che la qualificava per fare quello che non avrebbe mai fatto, la segretaria di qualche impresa del legno o dell’edilizia, una delle tante in quella valle dove non sapevano far altro che segare abeti e tirar su case. Di lì a un mese avrebbe terminato anche il lavoro stagionale in albergo, buono solo per guadagnare i soldi necessari a mettere in atto la fuga. Dopodiché sarebbe scesa in pianura, dove la vista poteva spaziare e le menti erano aperte, o almeno così le avevano detto. Non le restava che sperarci. Peggio di lì, non poteva andarle.
Era di questo che avevano discusso, quella sera a tavola, lei e sua madre. Lei a dire me ne vado, e la madre a replicare che no, non sarebbe andata da nessuna parte, altrimenti non le avrebbe più passato un soldo né riaperto la porta di casa. Tanto meglio, le aveva risposto la figlia, prima di alzare i tacchi, montare sulla Ypsilon e, come faceva sempre dopo quei litigi, dirigersi alla diga, dove la strada finiva insieme al resto del mondo, sperando che almeno lassù si potesse respirare.
A un certo punto, sul ciglio della strada Anita scorse una sagoma. Un ragazzo con il pollice alzato. Gli passò di fianco. Aveva più o meno la sua età. Non l’aveva mai visto prima. Un turista, senz’altro. Forse uno degli arrampicatori. Lei sulle prime pensò di tirare dritto. Poi però si ricordò di uno degli insegnamenti basilari della madre: mai parlare agli sconosciuti, una delle cui varianti era: mai dare un passaggio agli sconosciuti. Quindi si fermò e abbassò il finestrino.
- Ciao - disse lui.
- Ciao - rispose lei.
- Vado all’accampamento degli arrampicatori.
- Ci passo davanti, sali.
Il ragazzo ringraziò e montò, portando nell’abitacolo un forte odore di bosco e tabacco.
Per qualche istante nessuno dei due disse nulla.
- Posso fumare? - chiese lui a un certo punto.
Un’altra regola della madre era: mai fumare in macchina.
- Sì - rispose lei, e gli abbassò il finestrino.
Il ragazzo ringraziò nuovamente e si accese una sigaretta fatta a mano.
- Di dove sei? - chiese lei.
- Reggio Emilia - rispose lui.
- Pianura, quindi...
- Esatto.
- Beato te.
- In che senso?
- Nel senso che ti invidio. Vorrei viverci anch’io.
- Scherzi?
- Per niente. Ne ho le palle piene, di queste montagne.
- Beh, io ho le palle piene della pianura...
- Potremmo fare cambio, allora.
- Magari.
Il buio era calato di colpo tra le pareti di roccia, come una saracinesca sul mondo.
- Sei nata qui? - domandò lui.
- Nata e vissuta. Sempre.
- E cosa c’è che non va, con queste montagne?
- Tutto, più o meno. Gente chiusa, gretta. Zero prospettive. Segherie e alberghi. E grappa. Fine.
Lui sorrise.
- Beh, la vostra grappa è buona... E poi avete le montagne. E tante rocce da scalare. Noi arrampicatori di pianura ce le sogniamo.
- Contenti voi...
- E avete anche gli orsi...
Anita si voltò a fissarlo. Pensò che forse era un po’ matto.
- Cosa c’entrano gli orsi? - gli domandò.
- Beh, sono belli.
- Gli orsi, belli?
- È bello sapere che ci sono. Vuol dire che c’è ancora tanta natura, e non soltanto cemento.
Tacquero di nuovo.
Lui finì la sigaretta e la spense nel posacenere, mentre Anita si ritrovò a pensare che lei l’aveva sempre data per scontata, la natura.
- E in pianura com’è? - domandò a un certo punto.
- Piatto - rispose lui.
- E poi?
- Strade e palazzi. Umidità, calore e inquinamento.
- Ma anche cultura, concerti, locali. Gente aperta.
- Sì - rispose lui. - Fin troppo aperta. Anche alle mafie.
- Mafie?
- Sì. Sono anni che ci hanno infiltrato...
- Non lo sapevo.
- Nessuno lo sbandiera.
Nell’abitacolo calò di nuovo il silenzio.
Salendo, la strada si stringeva e le curve si facevano più insidiose. All’accampamento mancava ormai poco.
- Ne hai mai visto uno? - domandò lui.
- Visto chi?
- L’orso.
- No.
- Nemmeno io. Ho letto che, se lo incontri, non devi scappare, ma allontanarti piano, parlando a bassa voce.
- Qui è più facile che gli sparino...
- Scherzi?
- Per niente. La gente non li vuole.
Il ragazzo scosse la testa.
- Forse è come dici tu, allora...
- Cosa?
- Che hanno la mentalità chiusa.
L’accampamento apparve in quel momento e Anita fermò la macchina sullo sterrato antistante.
- Beh, grazie del passaggio - disse il ragazzo. - Io comunque mi chiamo Giacomo.
Le tese la mano sorridente e lei gliela strinse, rispondendo al sorriso.
- Anita.
Fu allora, mentre pronunciava il proprio nome, che lo vide.
Appena fuori dall’alone dei fanali, in fondo allo sterrato, al limitare del bosco, a circa trenta metri.
L’orso.
Lo indicò al ragazzo, che si voltò e rimase anch’egli a contemplare rapito quella sagoma nera, imponente.
Restarono muti e fermi per un lungo istante.
Poi l’orso si mosse. Si girò e a passo incredibilmente rapido si allontanò, sparendo fra gli alberi.
- Anita? - ruppe il silenzio lui dopo un bel pezzo.
- Sì?
- Ti va di rivederci?
Lei non rispose subito.
- Qui o in pianura? - gli disse infine, sorridendo.
- Dove vuoi.
Si guardarono negli occhi.
- Va bene - disse lei.
Si scambiarono i numeri di telefono.
Poi lui smontò dalla macchina, le fece un ultimo saluto con la mano, si guardò attorno e s’incamminò verso l’accampamento. In pochi secondi il buio finì per inghiottirlo.
Anita rimise in moto e tornò sulla strada. Non girò verso la diga, però. Voltò per il paese. Per quella sera aveva respirato abbastanza.
Poetico!
Mi ha ricordato tantissimo com'ero io a quell'età!