La morte logora chi non ce l'ha
Una storia che sa di estreme macchinazioni e beatificazioni mancate
Era morto pure l’ex Presidente della Repubblica più influente della storia recente. Era morto subito dopo il Papa. E il Papa era morto dopo il calciatore italiano più popolare dell’ultimo mezzo secolo. Quella singolare sequenza di pezzi da novanta usciti di scena per sempre aveva reso ancora più assillante, e ormai angosciante, il pensiero che da anni lo tormentava: quando fosse toccato a lui - perché ormai lo aveva capito, per quanto con fatica e con dolore: nemmeno lui poteva sottrarsi alla morte - quando fosse toccato a lui, l’attenzione sarebbe stata maggiore di quella riservata a chiunque altro?
Fino a quando si era creduto immortale, e aveva continuato a comportarsi come se dovesse vivere per sempre, non si era mai posto la domanda. E se anche per assurdo lo avesse fatto, la risposta gli sarebbe parsa banalmente affermativa. Era ovvio che l’attenzione dedicata a lui, dopo la sua morte (una morte ipotetica, di scuola), sarebbe stata maggiore di quella riservata a chiunque altro, prima e dopo di lui. Perché lui era l’uomo che aveva governato l’Italia, direttamente o indirettamente, per più di trent’anni, che l’aveva cambiata, trasformata, plasmata a sua immagine e somiglianza. Perché lui era l’uomo senza il quale l’Italia del tempo presente sarebbe stata inconcepibile: se i padri risorgimentali avevano fatto l’Italia, l’Italia si era infine incarnata in lui. Ecco perché lui non poteva morire. Una nazione non può morire, mai. Eppure.
Eppure, passati gli ottant’anni, con la salute che aveva iniziato a mostrare i primi seri segni di peggioramento nonostante la quantità enorme di denaro speso per curarsi e contrastare l’invecchiamento, l’idea della morte, la realtà della morte, si erano insinuate viscide dentro di lui, prima timidamente, come un presentimento errato, una preoccupazione ingiustificata, e poi sempre più caparbie, fino a farsi via via maledettamente ingombranti e radicate. Sì, aveva infine dovuto convenire, sarebbe morto anche lui. E allora la sua preoccupazione era diventata un’altra: uscire di scena più trionfalmente di chiunque altro. Far impallidire papi, re e regine d’ogni tempo e d’ogni luogo.
Proprio per questo in lui c’era stato un radicale cambio di atteggiamento nei confronti della morte: prima respinta come la peggiore delle iatture, rifiutata come la più empia delle eresie; poi rilevata obtorto collo come una cosa sciaguratamente inevitabile, al pari del tramontar del sole; poi vista e accettata come una nuova opportunità, l’ennesimo e più potente mezzo mai avuto a disposizione per affermare se stesso, più potente del denaro, più della televisione, più del comando; infine addirittura desiderata con anticipo, in quanto aveva capito che uscire di scena calcando ancora il palcoscenico gli avrebbe garantito un trionfo infinitamente maggiore di un’uscita di scena che fosse avvenuta a un’età troppo avanzata, dopo anni chiuso in casa, magari costretto su una sedia a rotelle. No, non doveva assolutamente accadere. Così si era dato da fare, senza perdere tempo, com’era sua abitudine, e aveva iniziato a predisporre la propria dipartita.
“Voglio morire”. Quando lo aveva annunciato a Zarrillo, il capo della sua équipe medica, formata da decine di camici bianchi, fior di specialisti a sua esclusiva disposizione ventiquattro ore su ventiquattro, c’era mancato poco che a quello venisse un coccolone e a morire fosse lui. Non tanto perché, come pure spergiurava, Zarrillo considerasse il suo assistito al pari di un padre, quanto per il fatto che sarebbe venuto meno, di colpo, il vertiginoso compenso ricevuto per le cure che da tempo gli forniva. Ma quando il capo s’innamorava di un’idea, non c’era verso di fargliela cambiare. “Dovrai spacciarla come una morte per infarto, quella che meglio mi si addice”, gli aveva ordinato seccamente. E Zarrillo, come sempre, si era adeguato.
Così, dopo mesi di preparativi, l’uomo nel quale l’Italia si era incarnata morì. Solo che l’Italia, contro ogni speranza e aspettativa, non morì con lui. Sì, certo, il governo proclamò il lutto nazionale, il Parlamento venne chiuso e ogni attività politica fu sospesa per due giorni (anche se lui si sarebbe aspettato che il blocco durasse almeno una settimana, se non proprio un mese). Sì, certo, le testate italiane e internazionali vennero inondate dalla notizia, furono versati fiumi di inchiostro, vennero mandati in onda decine di servizi al telegiornale (anche se pochi mesi prima l’ex Presidente della Repubblica, quell’eminenza grigia dal passato torbido, e pure il popolare calciatore, uno che a lui era sempre stato sui coglioni perché politicamente avverso, avevano ricevuto lo stesso spazio; e il Papa, quel mollaccione insignificante e noioso, persino di più). Ma erano tutte cazzate. Ovvie e scontate. Quello che lui avrebbe voluto, invece, non accadde.
La sua morte avrebbe dovuto cancellare per sempre le divisioni e le critiche, unire tutti in un unico, assordante coro di beatificazione capace di consegnarlo definitivamente alla storia come il più grande statista di tutti i tempi, non solo d’Italia, ma del mondo. A beatificarlo avrebbero dovuto essere anche quelli che, nel teatrino della politica, avevano recitato per decenni il ruolo di suoi detrattori. Sì, certo, molti nemici in effetti si prostrarono e proclamarono finalmente la loro ammirazione per lui, peraltro in maniera pelosa, senza alcuno stile. Ma altri, troppi, non lo fecero, e anzi addirittura osarono approfittare della sua morte per attaccare con la solita solfa dell’uomo bramoso di potere che aveva violato ogni norma e regola per fare unicamente il suo interesse personale. E persino tra gli amici e gli alleati, o presunti tali, furono tanti, troppi quelli che si lasciarono scappare frasi che, se prese alla lettera, esprimevano solo cordoglio e dolore, ma, se lette bene, lasciavano invece trapelare soddisfazione e giubilo per esserselo finalmente levato dai coglioni. Ed erano proprio coloro che, senza di lui, sarebbero rimasti le nullità che erano sempre stati e in fondo erano ancora.
“Merde! Tutti quanti!”, ringhiò con stizza mentre assisteva alla diretta televisiva del suo funerale dalla remota isola tropicale che si era comprato tanto tempo prima, nell’ipotesi di trascorrere lì i suoi ultimi anni. Con l’aiuto di Zarrillo e pochi altri fedelissimi, vi si era trasferito di nascosto per inscenare la propria morte. L’aveva fatto non solo per uscire di scena coi piedi ancora sul palcoscenico, ma anche, se non soprattutto, per fare ciò che a nessun defunto è concesso, e quindi, in un certo senso e paradossalmente, per tornare a sentirsi immortale: vedere cosa sarebbe accaduto dopo.
Anche se, col senno di poi, adesso pensava che sarebbe stato molto meglio risparmiarsi quello spettacolo rivoltante. E fu proprio mentre premeva con sdegno il pulsante del telecomando per mettervi fine, proprio lui che sulla televisione aveva eretto il suo impero, fu in quell’attimo che il suo cuore - un cuore provato da decenni trascorsi a barare, semplificare, imbonire, imbrogliare, aggiustare, accomodare, comprare, accumulare, lucrare, pagare, arraffare, tramare, ciarlare, scherzare, rimbambire, mentire, fingere, manipolare, frodare, blandire, attaccare, esagerare, urlare, cantare, ballare, suonare, prevaricare, liquidare, promettere, corrompere, plagiare, disattendere, tradire, comandare, scalare, arraffare, purgare, distruggere, ricostruire, trionfare, calpestare, violare, infrangere, predare, rubare, esultare, inveire, protestare, piangere, ridere, ghignare, fottere, specialmente fottere, tutti e tutte, uomini e donne, giovani e vecchi - fu proprio in quell’attimo altamente simbolico che il suo cuore, un cuore tanto usurato, smise di battere. Stavolta per davvero. E per sempre.
Grandi
Grazie, ne avevo molto bisogno!