Fu durante una tersa mattinata di febbraio che lo zio Valerio, dopo averlo a lungo meditato, invase parte della proprietà occupata da Franco, il nipote.
Era da tempo, forse da sempre, che tra zio e nipote non correva buon sangue. Il vecchio Giuseppe (padre di Valerio e nonno di Franco) aveva saputo tenerli uniti, loro e tutti gli altri membri della famiglia, a costo di usare la forza. Ma poi, ormai da anni incapace di recitare più alcun ruolo se non quello della propria decadenza fisica e mentale, il vecchio era morto, e zio e nipote avevano preso strade diverse.
Fino a quando aveva comandato Giuseppe, avevano vissuto tutti assieme nella vecchia cascina, dove ogni cosa era di tutti, perché tutti, diceva il vecchio, erano uguali (anche se lui, ma questo non lo diceva, era più uguale degli altri). Tutti erano: Giuseppe e sua moglie Lina; il primogenito di Giuseppe, Valerio, sua moglie Caterina e i loro figli Sara e Paolo; la secondogenita di Giuseppe, Antonella, suo marito Armando e loro figlio Franco.
D’amore e d’accordo (più o meno), avevano mandato avanti con successo la fattoria, la più grande della regione, che sfamava il circondario producendo farina (così soffice da affondarci le mani), olio (così limpido da berlo a bicchierate), vino (così forte da ubriacarsi senza accorgersene), salumi (così morbidi da sciogliersi in bocca) e formaggi (così sapidi da piacere anche più dei salumi).
Poi Giuseppe, invecchiando, si era progressivamente indebolito e rimbecillito, e le cose avevano preso a precipitare.
Innanzitutto la famiglia aveva iniziato a perdere pezzi. I figli di Valerio e Caterina, Sara e Paolo, ormai stufi della campagna, a un certo punto, diventati grandi, si erano trasferiti in città (il nonno non lo avrebbe mai permesso, ma ormai il nonno non contava più nulla), avevano trovato lavoro e da lì non avevano mai più fatto ritorno. Dall’altra parte era stato Armando, il marito di Antonella, ad andarsene, crepando d’infarto un pomeriggio d’estate, mentre lavorava nei campi.
Così nella cascina erano rimasti soltanto Giuseppe e Lina, ormai infermi e incapaci, Valerio e Caterina, e Antonella e Franco, nel frattempo cresciuto pure lui e subentrato al padre nell’attività agricola, portata avanti insieme allo zio.
Finché Giuseppe era rimasto in vita, Valerio e Franco si erano sopportati, per quanto a fatica. Non erano mai andati d’accordo, zio e nipote. Erano troppo uguali - entrambi assai prepotenti ed egoisti - per andare d’accordo. Ma la presenza del vecchio - padre e nonno verso il quale entrambi avevano sempre avuto timore reverenziale, persino dopo che aveva smesso di pulirsi il culo da solo - li aveva indotti a evitare lo scontro aperto. Si erano limitati a scaramucce e diverbi sempre più accesi, ma mai tali da rompere il loro sodalizio forzato. Poi, un freddo giorno di dicembre, Giuseppe era passato a miglior vita, seguito a ruota dalla moglie. E quel sodalizio si era rotto.
Più o meno consensualmente, zio e nipote si erano spartiti l’eredità. Valerio e la moglie si erano tenuti la cascina e la maggior parte dei campi e degli animali. Franco e la madre, invece, si erano trasferiti in un vecchio casolare ai margini della proprietà, da sempre adibito a granaio, e lo avevano trasformato in un’abitazione più o meno confortevole, prendendo possesso dei campi e degli animali che rimanevano.
Per molto tempo, la vita delle due famiglie, e delle due fattorie, era trascorsa quasi senza contatti, ognuno per sé, a casa propria. I tempi in cui comandava Giuseppe erano un lontano ricordo, e ormai né il figlio né il nipote ne onoravano più la memoria. Anche se permaneva, in entrambi, la fastidiosa e inspiegabile sensazione che solo allora, sotto il giogo del vecchio, fossero stati felici. È risaputo, del resto, che tutte le famiglie felici sono uguali, mentre ogni famiglia infelice è infelice a modo suo. Valerio e Franco non erano da meno: infelici, sì, ma in modo diverso.
Valerio, nel tempo, s’era lasciato ossessionare sempre più dall’idea di dover tornare ai fasti del passato, quando la fattoria prosperava, mentre ora che a portarla avanti, autarchicamente, c’erano solo lui e la moglie - una buona a nulla che Valerio maltrattava in modi sempre più violenti - produceva meno e peggio, al prezzo di una fatica sempre crescente.
Franco, dal canto suo, aveva rinnegato ogni legame col passato e aveva aperto le porte della sua fattoria alla manovalanza esterna, pagandola con la vendita dei prodotti agricoli, che però non erano mai sufficienti, soprattutto perché Franco, nonostante la muta e impotente disapprovazione della madre, aveva nel frattempo preso abitudini dissolute, e passava ormai più tempo in città che in campagna, tra bar e puttane.
Fu in questo contesto che Valerio, quella tersa mattinata di febbraio, decise di invadere parte della proprietà occupata da Franco, conducendovi attrezzi e mezzi agricoli allo scopo di iniziare a coltivarla di suo pugno. Si era infatti convinto che, se avesse potuto mettere le mani, progressivamente, su tutti i campi posseduti da quel fannullone del nipote, la fattoria, tornando ai vecchi confini dei tempi di Giuseppe, sarebbe tornata anche ai vecchi fasti. E poi c’erano i manovali di Franco, che gli davano sempre più sui nervi. Valerio odiava il nipote, ma ancora di più odiava quegli stranieri chiassosi e sbruffoni cui quell’idiota aveva affidato le attività agricole, i quali, ne era convinto, prima o dopo avrebbero preso il comando della fattoria, pronti a fare la stessa cosa anche con la sua.
Franco reagì con rabbia all’invasione, rifiutando in modo categorico di lasciare allo zio i campi che gli aveva occupato, pensando che, se lo avesse fatto, quello poi si sarebbe preso anche tutto il resto. Così, quando Valerio si mise a coltivare i campi che aveva usurpato, Franco, con l’aiuto dei suoi manovali, iniziò a danneggiargli mezzi e attrezzi, fino a strappare le piantine di grano, ad abbattere vigne e ulivi, ad ammazzare vacche e maiali. Valerio rispose con incursioni sempre più frequenti in altre parti della proprietà del nipote, devastandole a sua volta con acredine.
Fu così che, a causa di quel crescente sforzo bellico, entrambe le fattorie iniziarono a produrre assai meno di prima, danneggiando le economie dell’intero circondario oltre che le proprie. Tuttavia, nessuno dei vicini, tranne il prete, tentò di convincere zio e nipote a cessare le ostilità. Alcuni sostenevano che il cattivo fosse Valerio, l’invasore, e che se lo avessero lasciato impunito quello avrebbe potuto invadere anche altre proprietà, in futuro. Altri sostenevano al contrario che il cattivo fosse Franco, che con il suo stile di vita dissoluto, e l’apertura della fattoria ai manovali stranieri, aveva provocato lo zio fino a rendergli inevitabile l’attacco.
Impoverendo sempre più non solo i combattenti, ma l’intera regione, privata del cibo che Valerio e Franco, prima d’iniziare la loro guerra, avevano pur sempre continuato a produrre e a vendere in quantità, le ostilità proseguirono a lungo e a un certo punto parve non dovessero finire mai, a dispetto della povertà crescente e dei fisici sempre più smunti dei due belligeranti e dei loro vicini, ormai diventati veri e propri alleati dell’uno o dell’altro. Finché arrivò l’esplosione.
In uno dei territori contesi tra Valerio e Franco si trovava un vecchio edificio di mattoni rossi, e dentro l’edificio c’era una centrale termica molto potente, la quale, durante le ostilità, aveva continuato a funzionare, a servizio di entrambi. Solo che, distratti dai combattimenti, zio e nipote avevano smesso di fare la necessaria manutenzione, l’uno credendo che sarebbe stato l’altro a occuparsene. Era filato tutto liscio finché, a un certo punto, non si era rotto un pezzo, e quella rottura non aveva causato il surriscaldamento progressivo della caldaia, che infine, nel cuore di una notte scura in cui tutte le vacche erano nere, esplose con fragore.
L’esplosione, il cui bagliore illuminò a giorno l’intera regione per un istante interminabile, rase al suolo le due fattorie e quasi ogni edificio e manufatto presente nei dintorni, causando la morte, oltre che di Valerio e di Franco, anche della moglie del primo e della madre del secondo, nonché di centinaia di uomini e donne che vivevano nel raggio di chilometri.
Il cratere di quell’esplosione, oggi, si vede ancora. E, in mezzo, si vedono i resti delle due fattorie. Più nessun essere umano abita nella zona, diventata completamente improduttiva e tornata regno di piante e animali selvatici.
Tra i detriti scorrazzano soprattutto i cinghiali, in cerca di qualcosa di commestibile. Uno di loro, in questo momento, sta annusando una fotografia in bianco e nero, rimasta miracolosamente integra, ai piedi di una credenza semidistrutta. Se il cinghiale potesse comprendere l’immagine, vedrebbe ritratte nove persone, sei adulti e tre bambini, nessuno dei quali sorridente: sono Giuseppe e la sua famiglia, ai vecchi tempi. Il cinghiale però non può capire e, pensando che la fotografia si possa mangiare, la mette sotto i denti, la mastica e poi la rigetta, così che pure quella, ora, è ridotta in poltiglia, come tutto il resto: l’infinito resto dei giorni, l’intangibile resto di niente.
Questa storia mi ricorda qualcosa, oh sì riesco a vederla come in un film: molto realistica e convincente.