La commedia del lavoro (2)
Una storia che sa di finzioni spudorate, danni apocalittici e confessioni tragiche
Seconda e ultima puntata
Mi allontanai dal centro urbano. Giunto in periferia, mi fermai nei pressi del grande cantiere di un palazzo e mi misi a discorrere con uno degli operai, intento a gettare del cemento. Gli chiesi se anche lui stava fingendo di lavorare, anche se già avevo visto che stava fingendo, non c’era alcun dubbio che stesse spudoratamente fingendo. Lui si guardò attorno furtivo e poi, a bassa voce, mi disse che non era colpa sua, il lavoro che gli avevano affidato era quello, che per pietà non lo denunciassi al padrone, altrimenti per lui era finita, così l’operaio, finita per sempre, disse. Gli dissi di stare tranquillo, che ero solo un passante che aveva letto Bernhard e voleva la conferma che più o meno tutti, oggi, fingano di lavorare. Allora lui si tranquillizzò, posò la pala e mi disse che era quel palazzo, di per sé, a essere completamente inutile, così l’operaio, testuale, completamente inutile, disse, perché di edifici ce n’erano già ovunque a centinaia, sarebbe bastato ristrutturarli anziché costruirne di nuovi, peraltro orribili, mentre quelli di una volta erano esteticamente pregevoli, realizzati da individui che non erano alienati dal loro lavoro, così l’operaio, testuale, individui che non erano alienati dal loro lavoro, disse, e di conseguenza il frutto del loro lavoro era bello, e confortevole, e sensato, mentre di quel palazzo che stavano costruendo, come delle altre centinaia di palazzi che venivano costruiti in quella città, tutto era insensato, dalle vetrate lucide e glaciali, al numero infinito di piani, ai controsoffitti che celavano brutture orripilanti, alle tonnellate di ferro e cemento, al sistema di aria condizionata, soprattutto il sistema di aria condizionata era un’aberrazione mostruosa, così l’operaio, testuale, un’aberrazione mostruosa, disse, un infinito reticolo di canaline da cui sarebbe fuoriuscita aria tossica che avrebbe inquinato inesorabilmente le menti di chi avrebbe abitato quegli uffici, dove un mucchio di gente avrebbe finto di lavorare proprio come stava facendo lui ora, causando solo danni enormi e irrimediabili, così l’operaio, testuale, danni enormi e irrimediabili, disse, danni apocalittici, aggiunse. Poi tornò a gettar cemento e io me ne andai.
Continuai a camminare e raggiunsi la zona industriale. Mi avvicinai a uno dei tanti capannoni, dove andavano e venivano rapidi innumerevoli muletti, trasportando imballi d’ogni genere. Qui pare lavorino con grande lena, pensai, e in realtà la grande lena è tutta finzione. Lo dissi al tizio in giacca e cravatta, probabilmente un dirigente, che in quel momento stava varcando il cancello d’ingresso. Lui mi guardò e mi chiese se ero uno di quegli attivisti o peggio un sindacalista. Io gli risposi di no, che avevo semplicemente letto Bernhard eccetera, e che volevo solo sapere la verità, niente di più. Allora lui mi disse che dentro quel capannone veniva stoccato ogni tipo di merce, era un centro di stoccaggio per il commercio elettronico, ma quello che stava per dirmi, disse, valeva per qualsiasi altro stabilimento industriale, così quel dirigente, testuale, qualsiasi altro stabilimento industriale, disse. Tutto il sistema produttivo, disse, si basava su una domanda artificiale, drogata per così dire, e di conseguenza ogni tipo di merce, in realtà, veniva prodotta in quantità eccessiva, e gran parte di quelle merci, senz’altro la maggioranza di quelle che loro stoccavano nel loro capannone, era completamente inutile, oltre che prodotta in modo pessimo, dozzinale, per fare in modo che tutto si rompesse nel giro di poco tempo e la gente ne comprasse ancora, e ancora, e ancora, in un ciclo infinito dal quale l’intero pianeta stava uscendo devastato, così il dirigente, testuale, un ciclo infinito dal quale l’intero pianeta stava uscendo devastato, disse, un ciclo che stava trasformando il pianeta, aggiunse, in un’enorme, stratificata, nauseabonda discarica a cielo aperto, così il dirigente, testuale, un’enorme, stratificata, nauseabonda discarica a cielo aperto, disse. Poi fermò uno dei muletti e ordinò all’operaio che lo stava guidando di aprire l’imballaggio che trasportava. L’operaio obbedì e il dirigente estrasse dall’imballaggio un albero di Natale e mi chiese, semplicemente: “Lo vede?”, e lo ripeté: “Lo vede?”. E io gli dissi che sì, lo vedevo, lo vedevo benissimo, non l’avevo mai visto così bene, gli dissi. Poi lo ringraziai e me ne andai.
Continuai a camminare e arrivai in campagna. Lì si produceva cibo, e nessun lavoro è più necessario della produzione di cibo, eppure anche lì fingevano di lavorare, pensai. M’imbattei in un contadino che stava vendemmiando e glielo dissi, gli parlai di Bernhard eccetera, della mia volontà di sapere solo la verità, gli dissi, nient’altro che la verità. E quello ammise che sì, in effetti era così, fingevano pure loro. M’indicò l’uva che stava vendemmiando e mi disse che non era più nemmeno cibo, quello, che se fosse stato cibo avrebbe potuto offrirmelo e avrebbe potuto mangiarne anche lui, ma non era più cibo, quello, ripeté, perché era velenoso innanzitutto, pieno di pesticidi, roba tossica all’inverosimile, e poi perché serviva a produrre vino, non a sfamarsi, producevano uva, disse, ma non per sfamare la gente, solo per produrre vino. Eppure tutti mangiamo, gli dissi, e lui rispose che sì, era vero, tutti mangiamo, ma il cibo che mangiamo, oggi, è tutto quanto tossico senza eccezioni, così il contadino, testuale, tutto quanto tossico senza eccezioni, disse, e non è più nemmeno cibo, perché ha un grado di sofisticazione che non lo si può più nemmeno chiamare cibo, disse, e quindi quando lo ingeriamo non stiamo mangiando, disse, ma ci stiamo soltanto avvelenando. Oggi si produce cibo non per sfamare la gente, aggiunse, ma per fare soldi, monocolture della vite, della mela, di qualsiasi cosa, solo per fare soldi, non per sfamarsi. Il fatto che con quel cibo prodotto solo per fare soldi la gente si sfami, o meglio abbia la sensazione di sfamarsi mentre si avvelena, è un aspetto incidentale, così il contadino, testuale, meramente incidentale, disse, un effetto collaterale di questa gigantesca, ottusa fabbrica di soldi a mezzo cibo, monocolture il cui prodotto è destinato in gran parte alle bestie, così il contadino, a tutte le bestie ammassate dentro stalle enormi in tutto il mondo, disse, miliardi di capi di bestiame allevati per produrre carne del tutto priva di proprietà nutritive, inevitabilmente tossica anch’essa, che non serve a sfamare la gente ma a fare soldi che servono a comprare altro cibo tossico e altra roba inutile, e così via in una catena apparentemente eterna che stritola il mondo e che però prima o poi finirà per spezzarsi, e allora tutta quanta questa gigantesca finzione del lavoro inutile e dannoso crollerà in mille pezzi con un boato assordante, così il contadino, tutta quanta questa finzione crollerà in mille pezzi con un boato assordante, disse, insieme a tutto il resto, aggiunse. Io annuii gravemente, lo salutai e tornai sui miei passi.
Rientrai in ufficio, dove la mia assenza non aveva prodotto alcun effetto e dove nessuno si era nemmeno accorto della mia assenza. E lì, indaffarato, ricominciai a fingere di lavorare.
Nota dell’autore
Le frasi di Thomas Bernhard sono tratte da “Estinzione”, Adelphi 1996 (traduzione di Andreina Lavagetto).
Bellissimo questo filone sul lavoro che ci avete regalato a maggio... Grazie
ma anche voi fingete di scrivere e noi di leggere?:)
non c'entra, ma:
ho appena letto 4321, di Paul Auster.
un capolavoro, come dice anche Maurizio Maggiani.