Il vecchio e i capperi
Un reportage che è anatomia di un'isola, storia di una resistenza, recensione di un libro
Definisco piccola un’isola dove puoi percorrere in macchina la distanza tra i due punti più lontani in meno di un’ora, generalmente col mare davanti, o di fianco. L’isola di Vis, in Croazia, ti permette di farlo in poco più di mezz’ora, e la vista del mare non ti abbandona quasi mai.
Su una piccola isola diventano piccoli anche problemi e preoccupazioni, così piccoli che alla fine se l’inghiotte l’azzurro, e a te non resta che un pezzo di legno su cui naufragare, sì, ma dolcemente, come il poeta.
Vis la scegliamo perché le guide dicono che non è stata sfregiata dal turismo di massa, a differenza di pressoché tutte le altre isole croate. Anche se poi mi chiedo sempre se non ne faccia parte anch’io, di quella massa. E se sì, allora che diritto ho di aborrirla? E se no, in base a cosa posso chiamarmene fuori? Sono un turista migliore degli altri? Perché?
In ogni caso, il turismo di massa a Vis non ci è arrivato perché per quarant’anni l’isola è stata interdetta ai visitatori stranieri, in quanto sede di basi militari dell’esercito iugoslavo. Ricca di storia, l’isola di Vis: greci, romani, veneziani, austriaci. Dopo aver visto succedersi tanti occupanti, durante la seconda guerra mondiale si distinse per essere rimasta l’unico pezzo di territorio iugoslavo non occupato dai nazisti. Per questo Tito la scelse, nel 1944, come rifugio da cui coordinare la resistenza. Un motivo in più per andarci, mi sono detto.
Poco prima della partenza se ne aggiunge un altro, sorprendente. Il mio editore ha appena pubblicato un libro intitolato “Isola”, ambientato proprio a Vis. L’autore è Senko Karuza, filosofo, pescatore, contadino, cuoco e soprattutto uno dei tremila abitanti di Vis. Una guida all’isola molto sui generis, apprendo dalla quarta di copertina. Io che cerco sempre di leggere un po’ di letteratura del posto che visito, la trovo una coincidenza incredibile, entusiasmante, e provvedo subito ad acquistare il libro. Già mi vedo a leggerlo laggiù, in spiaggia. Già mi vedo a brandirlo davanti all’autore nella sua taverna. Ecco il tuo libro tradotto in italiano, gli dirò, io e te abbiamo lo stesso editore!
Il nostro arrivo sull’isola è segnato da un caldo umido e afoso degno dei tropici più che dell’Adriatico. Il primo giorno ci svegliamo immersi in una luce lattiginosa che rende indefiniti i contorni del mondo, come se del mondo non rimanesse che lo spettro, il mero simulacro. Il clima segna la nostra prima percezione dell’isola: l’interno ci appare come una landa desolata, la costa come un miraggio ingannevole, i paesi come colonie penali.
Poi la notte del secondo giorno si scatena un temporale da tregenda, e al risveglio ci sembra di essere in un altro posto, simile a quello che immaginavamo e cercavamo. L’aria è fresca, tersa, i colori finalmente vividi: l’interno è verde, la costa è blu, i paesi rossi.
Vista a una certa distanza, quella delle foto da cartolina, l’isola è meravigliosa. Effettivamente gli sfregi tipici del turismo di massa non si vedono: niente alberghi, niente stabilimenti balneari, niente centri commerciali, niente discoteche, niente traffico, niente caos. A dominare sono la tranquillità e il silenzio.
Però poi, se ti avvicini, capisci che, per quanto il turismo di massa a Vis non esista, Vis non esisterebbe senza il turismo. Lo capisco, ancor più che girandola, leggendo Senko Karuza. Lui sull’isola ci è nato sul finire degli anni Cinquanta, quando era già stata trasformata da Tito in una base militare e il turismo non c’era, e i suoi abitanti vivevano solo di pesca, allevamento e agricoltura. Poi se n’è andato in città, prima a Spalato, poi a Zagabria, a studiare, laurearsi, lavorare. Poi sull’isola ci è tornato, con la fine del socialismo e della guerra, quando il turismo è diventato pian piano la principale se non unica fonte di reddito. I suoi sono racconti brevi, fulminanti, pervasi da un umorismo caustico e malinconico, tutti centrati sulla difficoltà di accettare questo passaggio brusco dall’antico al moderno, dal legno nodoso delle botti e delle barche ai bit impalpabili di internet, che permettono di affittare appartamenti che prima erano stalle, popolare ristoranti che prima erano cantine.
Si stava forse meglio quando si stava peggio, dunque? Quando c’erano Tito e il socialismo? Nei racconti di Senko Karuza Tito è l’innominato, non viene mai citato. La cosa mi appare singolare, e probabilmente non è casuale. Per provare a capirci di più, decido di andare a visitarne la famosa grotta. Si tratta della cavità rocciosa situata sul versante meridionale del monte più alto dell’isola, dove Tito trovò rifugio nel 1944 per sottrarsi ai nazisti, che lo consideravano uno dei loro nemici più acerrimi, e continuare da lì a coordinare la resistenza alla loro brutale occupazione.
La prima cosa di cui mi accorgo è che la grotta non è adeguatamente segnalata. Senza Google Maps non avrei mai individuato lo slargo dove parcheggiare la macchina, nei pressi della scalinata che, dopo la guerra, dopo il trionfo di Tito, fu costruita per condurre comodamente alla grotta il visitatore. Nel parcheggio non ci sono altre macchine. Ai piedi della scalinata c’è il rudere di quello che forse una volta, molto tempo prima, era un punto informativo. Lo fisso per un istante, perplesso, poi comincio a salire i gradini.
Il luogo è totalmente isolato, sperduto, non fatico a credere che i nazisti non siano riusciti a scovare l’odiato nemico. Le grotte sono in realtà due. Nei pressi di ognuna testi in lingua croata, scolpiti nella pietra, ricordano quando e come il capo della resistenza operò al loro interno, dando prova delle sue straordinarie abilità di stratega. Entro nelle grotte e, in quella penombra umida, penso al loro spiccato simbolismo: per far nascere l’uomo nuovo, fu necessario ripartire da dove l’uomo aveva iniziato. Poi, solo come sono rimasto per tutto il tempo della visita, torno sui miei passi.
Mentre mi avvicino al parcheggio, inizio a sentire un rombo cupo, sempre più forte, salire minaccioso dalla valle. Quando arrivo alla macchina, vedo una squadra di sette quad che, come un sol uomo, si fermano nello slargo e spengono i motori. La guida spiega ai turisti, in inglese, che quella è la scalinata per raggiungere la grotta di Tito. Poi, senza nemmeno sognarsi di salirla, rimettono in moto e ripartono verso la vetta del monte. Si tratta di uno dei tanti tour guidati che ogni giorno vengono effettuati sull’isola alla scoperta dei suoi vecchi segreti militari, a bordo di jeep polverose o, appunto, di ancora più avventurosi quad. Non è Tito che interessa a quei turisti, non la sua grotta spoglia, ma il suo lascito ben più scenografico, fatto di basi segrete, reti di tunnel, postazioni di avvistamento, cannoni puntati verso l’Italia, verso l’occidente, verso un nemico che in realtà non sarebbe arrivato da fuori ma da dentro, verso un sogno che, uscito da quella grotta, non seppe mai diventare realtà, ucciso dalla necessità di essere difeso nel suo splendido, e letale, isolamento. Un sogno che oggi, sull’isola che ne fu l’origine, è stato ridotto ad attrattiva turistica. Perfetta e beffarda nemesi storica del capitalismo, che tutto inghiotte e tutto, sempre, trasforma in profitto. Compreso il cadavere del nemico.
Di ritorno dalla visita alla grotta, mi fermo in un minuscolo paesino assiso sul poggio a sud dell’isola, la sua enorme terrazza sul mare. Un gruppo sparuto di case, nessuno in giro, solo cicale. Scendo dalla macchina per fare qualche scatto con la mia anacronistica reflex, alla ricerca dello scorcio autentico, vero, di ciò che poteva essere così anche un secolo prima, anche se probabilmente non lo troverò, anche se si rivelerà solo l’ennesima araba fenice. E infatti è difficile, fotografando le abitazioni, evitare che nell’inquadratura finiscano le targhe stellate degli apartmani (appartamenti) e delle sobe (camere).
Sto per risalire in macchina quando sento alle mie spalle la voce di un uomo che mi pare pronunciare la parola “Genova”. Mi giro e vedo un vecchio allampanato, mezzo sdentato, che sorride e, rivolto proprio a me, continua a dire Genova, Genova. Indica la mia macchina, la targa. Inizia con “GE”, in effetti. Sorrido anch’io. Vagli a spiegare ora che sono le targhe nuove, che le iniziali non stanno più a indicare la provincia di immatricolazione. Ci provo. Gli dico, in inglese, che non vengo da Genova, ma da Trento. Non capisce. Tento in italiano, lingua che pare masticare meglio, anche se di poco. Continua a non capire. Probabilmente è Trento il problema. Tra Milano e Venezia, dico forzando la geografia. Ora annuisce, allargando il sorriso. Inizia a parlare di Milan e Inter, a pronunciare nomi di giocatori di entrambe le squadre, alcuni dei quali ormai ritiratisi da decenni. Io annuisco divertito. Poi inizia a parlarmi in croato, gesticolando, indicando vari punti vicini e lontani attorno a noi, senza smettere di sorridere. Credo che voglia farmi da Cicerone, ma non capisco quasi nulla. Poi inizia a pronunciare la parola “kapari”, la ripete più volte. Non ne colgo il senso e allora lui mi chiede di seguirlo verso casa sua, lì a due passi. Io accetto, felice di questa inattesa interazione, che mi pare così vera, così autentica, così simile all’araba fenice. Kapari, continua a dirmi il vecchio. Kapari. Poi sparisce dentro l’abitazione e ne esce brandendo un vasetto di vetro. Lo apre, il sorriso più largo che mai, e me ne mostra il contenuto. Guardo e ora intendo: sono capperi sott’aceto. Mi ero già accorto che sull’isola la pianta cresce spontanea praticamente ovunque. Annuisco e sorrido anch’io. Mi invita ad assaggiarli, lo faccio e gli dico che sono buoni. Dieci euro, mi dice a quel punto lui. Esco di colpo dal mio mondo immaginario e ripiombo nella realtà, perché oggi la realtà è questa, questo il vero, questo l’autentico: io sono il turista, e anche lui, quel vecchio che pare uscito da un film di Kusturica, in quel paesino sperduto, è lì per vendermi qualcosa. Ma con me non ho contanti, e l’affare non riesce.
Scrive Senko Karuza: “Abbiamo guardato i turisti negli appartamenti che fino a ieri erano stalle o ricoveri come se fosse colpa loro se là non c’erano più i nostri asini, capre o galline, che ci davano molta più gioia e meno fatica, perché stavano sempre con noi e ci dicevano chi eravamo. I turisti ora vanno e vengono e l’unica cosa che ci lasciano è la sensazione di vuoto”. Dai suoi racconti emerge di continuo il rapporto di amore e odio che con i turisti intrattiene, con i quali deve suo malgrado avere a che fare, avendo deciso di affittargli appartamenti e fargli da mangiare. Nel racconto intitolato “Scene del turismo schiavista”, Senko narra di una riccona londinese che prima gli ha offerto tre birre, poi gli ha chiesto di aiutarla a comprare casa, poi a ristrutturarla, e infine di pulire e cucinare per lei, “perché lei non riesce nemmeno più a reggere un cucchiaio come si deve, da quanto è esausta”. Nel racconto intitolato, più semplicemente, “I turisti”, Senko parla di una famiglia in cerca del selvaggio, che gli ha chiesto di poter affittare una baracca sul mare senza strada, elettricità né acqua corrente. Lui ha provato a dissuaderli, senza riuscirci. Salvo poi vederli tornare da lui tre giorni dopo, stremati e stravolti, in cerca di cibo, dottori e… discoteche.
I miei dieci giorni sull’isola finiscono e da Senko alla fine non ci vado. Lo faccio per rispetto nei suoi confronti, nei confronti dell’acume delle sue storie minimaliste ma universali. Non ho voglia di fare il turista, con lui. Di interagire parlando un inglese stentato, buono per ordinare da bere o da mangiare, ma non per spiegargli come e quanto mi sia ritrovato nello spirito critico dei suoi racconti, nella sua ironia abrasiva e dolente, nella sua semplicità ruvida e profonda, per spiegargli come e quanto ciò che ha scritto mi sia parso vicino a ciò che sento anch’io, scrivendo. Da Senko non ci vado perché, almeno io, non voglio lasciargli nessuna sensazione di vuoto.
Lascio l’isola, invece, e con lei il sogno romantico di trovare un paradiso che il turismo non abbia ancora contaminato. Era una contraddizione in termini, del resto: un turista che odia i turisti. Come il socialismo tenuto su coi cannoni. O una guida all’isola che forse, in fondo, voleva essere un invito a non andarci.
Nota dell’autore
Il reportage che avete appena letto è stato scritto da Marco Niro nell’estate 2024, dopo il suo viaggio sull’isola di Vis. Marco ha poi pensato di farlo leggere a Ginevra Pugliese, la traduttrice italiana di Senko Karuza. Ginevra lo ha apprezzato, e ha voluto tradurlo in croato per poi mandarlo in lettura a Senko. Quest’ultimo, che lo ha letto mentre a Vis imperversava un caldo torrido e soffocante, ha trovato il testo “refrigerante”, e si è prodigato per la sua pubblicazione in Croazia, avvenuta su “More magazin” il 20 luglio 2024. “Siamo fatti della stessa stoffa”, ha scritto Senko a Ginevra, “tu che hai osato tradurre, Marco che si è sforzato di capire, e la mia umile persona che si dibatte in tutto questo”.
Sto già cercando di prenotare da Senko per la prossima estate... Grazie!
Splendido reportage, l'ho goduto fino all'ultima parola. Mi gusterò i racconti di Senko, come sto gustando il tuo Predatore, caro Marco