Prima puntata di due
Ero distratto e non mi accorsi di quello che stava succedendo. Quando l’auto iniziò a rallentare, dentro a quel tunnel, ero tutto intento a riflettere sulla vita. La mia. Una vita che non stava andando da nessuna parte.
A quarantatre anni, avevo smesso di credere alle favole già da un pezzo. Era stato bello, da giovane, pensare che la vita riservasse, per forza di cose, un qualche tipo di percorso dotato di senso. Che si dovesse solo trovarlo, quel percorso, con determinazione e forza di volontà. E che, una volta imboccato, avrebbe poi portato senz’altro da qualche parte, a qualche tipo di traguardo, a qualche genere di soddisfazione. Invece no. Non era così.
L’avevo capito tardi, in realtà. Fino a trentacinque anni avevo vissuto come se tutte quelle sciocchezze fossero vere. Poi, nel medesimo frangente in cui mi ero accorto, quasi di colpo, che stavo invecchiando - fino a quel momento non avevo mai pensato alla morte e avevo vissuto come se non dovessi morire mai - il castello di carte era crollato rumorosamente ai miei piedi. Lasciandomi con un lavoro insulso - perito di una grossa compagnia assicurativa - e una famiglia mediocre - una moglie che non avevo mai amato e una figlia che non avevo mai voluto. Nient’altro. E quando dico nient’altro, intendo proprio nient’altro. Nemmeno la rabbia, o la tristezza. Solo apatia. Andavo avanti trascinato dalla corrente come un pezzo di legno marcio alla deriva. Non c’era nulla ad attendermi, alla fine del percorso. Non c’era nemmeno più il percorso.
A questo pensavo quando l’auto iniziò a rallentare. Per reazione accelerai, ma il piede affondò a vuoto e il veicolo, anziché riprendere velocità, ne perse ulteriormente. Allarmato, gettai l’occhio al livello della benzina e solo in quel momento mi accorsi di essere in riserva. O meglio, di esserlo stato. Perché adesso anche la riserva era finita, e l’auto si stava inesorabilmente fermando. Proprio dentro a quel tunnel.
Avvistai a bordo strada, qualche decina di metri più avanti, un’angusta piazzola di sosta. Sterzai deciso e mi parcheggiai alla bell’e meglio, proprio mentre la benzina finiva del tutto e l’auto si spegneva. Ero per lo meno riuscito a evitare di rimanere in panne in mezzo alla carreggiata, cosa pericolosa sempre e tanto più dentro a un tunnel male illuminato com’era quello.
Mi trovavo in una regione di montagna fredda e sconosciuta, dove, in sostituzione del collega malato che normalmente si muoveva in quella zona, avevo appena svolto una perizia presso un’abitazione residenziale, cui il nostro assicurato, un mezzo spalaneve, era finito contro sfasciando mezza facciata. Quando mi ero messo in viaggio, quel pomeriggio, avevo pensato di fermarmi la notte e rientrare il giorno seguente. Poi, però, visto che ci avevo messo meno del previsto, avevo deciso di rincasare. Non perché volessi tornare dalla mia famiglia, tutt’altro, ma semplicemente per il fatto che, da sempre, fuori dal mio letto dormivo malissimo. Così, senza indugi, dopo la perizia ero montato in macchina e mi ero avviato verso casa, contando di raggiungerla in un paio d’ore al massimo, in tempo per la cena. Era mercoledì, e il mercoledì mia moglie faceva il polpettone. Una delle poche cose che sapeva fare. Una delle poche cose che ancora davano un senso alla mia esistenza.
A un certo punto, la strada stretta e piena di curve che stavo percorrendo aveva lasciato il posto a uno dei rari rettilinei, ed era stato lungo quello che avevo imboccato il tunnel. Un tunnel che mi era parso subito molto buio. Troppo buio, mi dissi ora che vi ero bloccato dentro, mentre guardavo fuori dal finestrino senza vedere altro se non la porzione di piazzola e di carreggiata che gli abbaglianti della mia auto riuscivano a illuminare. Che strano, pensai. Forse l’impianto di illuminazione si era guastato. La mia solita fortuna.
Il perito di un’assicurazione, in casi simili, dovrebbe sapere bene cosa fare, e prima ancora dovrebbe essere assicurato contro certe evenienze. A dirla tutta, il perito di un’assicurazione non dovrebbe essere così imbecille da ritrovarcisi, alle prese con certe evenienze. Io ero una via di mezzo: assicurato sì, ma anche imbecille. Peggio ancora sarebbe stato imbecille e non assicurato, provai a consolarmi. Solo che, quando presi in mano lo smartphone per contattare il numero verde dell’assistenza stradale, mi accorsi che non c’era campo. Dentro il ventre di quella enorme montagna, c’era da aspettarselo. Pioveva sul bagnato.
Senza spegnere i fari, scesi dall’auto e mi accorsi di un’altra stranezza: non passava nessuno. Non solo in quel momento, ma da quando ero entrato nel tunnel. Si trattava in effetti di una strada di montagna piuttosto secondaria, ed erano ormai le sette di una gelida sera d’inverno, ma la cosa mi parve singolare comunque. Oltre che seccante, visto che, se fosse passato qualcuno, avrei potuto chiedere aiuto e magari ottenere un passaggio, almeno per uscire da quel tunnel, dentro cui, pur non soffrendo di claustrofobia, iniziavo ormai a sentirmi soffocare.
Non mi restava che farmela a piedi fino all’uscita e telefonare una volta fuori. Mi domandai da che parte mi convenisse andare: indietro o avanti? Mi sporsi alla ricerca dei consueti cartelli che indicano quanti metri mancano alle uscite di ogni tunnel, ma non li vidi. Sospirai. Dopo un momento di riflessione, optai per tornare indietro, da dove ero venuto. Non sapevo, infatti, quanto fosse ancora lungo il tunnel dal punto in cui mi ero fermato in poi, ma avevo una vaga idea circa il tratto che avevo percorso dopo esservi entrato: non breve, ma nemmeno lungo. In dieci minuti, al massimo un quarto d’ora, stimai, avrei raggiunto l’uscita. Guardai in quella direzione. Nessun fanale, nessuna luce, solo buio. Accesi la torcia del mio smartphone e m’incamminai.
Passarono dieci minuti, poi un quarto d’ora, poi venti minuti, poi mezzora. Dell’uscita, ancora nessuna traccia. A quel punto mi fermai. Ero sudato e il cuore batteva forte. Non era la fatica, ma la tensione. Non riuscivo a capacitarmi: possibile che con l’auto avessi percorso tutta quella strada? È molto difficile, si sa, stimare la lunghezza di un percorso da fare a piedi se lo si è fatto soltanto in macchina. Del resto, avevo camminato molto lentamente, perché muoversi in quel luogo oscuro e ignoto alla sola, debole luce della torcia era una cosa piuttosto impegnativa. E poi, riflettei, quando avevo imboccato il tunnel ero così sovrappensiero da aver potuto anche percorrere centinaia e centinaia di metri senza accorgermene. Dopo mezzora di cammino, però, almeno un paio di chilometri dovevo averli fatti. Quanto ancora poteva essere lungo, quel tunnel? Mi chiesi di nuovo se dovessi procedere o tornare indietro. Decisi, senza troppi indugi, di procedere. Tornando indietro ero certo di dover fare un’altra mezzora di cammino solo per ritrovarmi al punto di partenza; andando avanti, invece, doveva per forza esserci meno strada, perché quel tunnel non poteva essere più lungo di tre o quattro chilometri, altrimenti durante il viaggio di andata ci avrei fatto caso. Mi avviai.
Camminai tuttavia solo per qualche minuto, poi dovetti arrestarmi nuovamente. Di colpo, stavolta. Bloccandomi come una statua di sale. Il respiro affannato, il cuore in tumulto, l’adrenalina in circolo.
La batteria dello smartphone si era scaricata. La torcia si era spenta. Era buio davvero, adesso. Un buio totale. Primordiale. Minaccioso.
Fine della prima puntata
La seconda verrà pubblicata il 12 aprile 2022
un altro tunnel, racconto grandissimo - https://alepalma67dotcom.files.wordpress.com/2016/07/durrenmatt-il-tunnel.pdf
un altro tunnel, libro grandissimo - https://lamenteemeravigliosa.it/il-tunnel-ritratto-di-unossessione/