Il mio momento ideale
Una storia che sa di strade solcate senza fermarsi e tricicli illuminati dal tramonto
Siamo in qualche posto mai visitato prima, che però aderisce piuttosto bene alle aspettative che su quel posto avevamo, per quanto il passarvi non fosse previsto e quindi non fosse possibile avere su di esso aspettative, che però, per qualche motivo, c’erano, e ora sono confermate.
Siamo in due: io e lei, naturalmente.
Siamo in camper. Il mio momento ideale - perché è questo che vi sto descrivendo - è infatti rigorosamente sulla strada, al punto che, se fermassimo il camper e scendessimo, o anche solo se lo fermassimo senza scendere, forse persino se semplicemente rallentassimo, la magia svanirebbe immediatamente.
Il paesaggio - appartenente forse al sud della Francia, o al nord della Spagna - è aperto, armonioso, ondulato. Ma non c’è soltanto campagna. Ogni tanto, come la lama il burro, attraversiamo lentamente qualche villaggio, e altri ne vediamo in lontananza. I villaggi non sono belli come la natura circostante. Sono piuttosto cadenti, sembrano avamposti di una regione che ha visto tempi migliori, che una volta esercitava persino un certo richiamo turistico, e che ora, per qualche ragione imponderabile e d’importanza del tutto trascurabile, decade inesorabilmente. Non sono squallidi, però, quei villaggi. Hanno una loro dignità e c’è qualcosa, nell’ordinarietà delle case che si affacciano sulla strada, nell’immobilità dei pochi bar, nel vuoto degli ancor più rari negozi, persino nell’anonimato delle stazioni di rifornimento, che inviterebbe a fermarsi. Ma fermarsi, come ho detto, non è contemplato. E quindi avanziamo.
Il sole non c’è; se ci fosse, rovinerebbe tutto, come una macchia su un vestito nuovo. Non piove, d’altra parte, né sono in atto fenomeni atmosferici di altro genere, i quali anch’essi, attirando troppo l’attenzione su di sé, finirebbero per guastare il momento in modo fatale. Semplicemente, è nuvoloso. Non come quando le nuvole le vedi e le puoi contare, e assegnare loro sembianze più o meno vaghe (attività d’un certo impegno intellettuale che finirebbe anch’essa per distogliere imperdonabilmente dal momento, oltre che pericolosamente dalla guida). È nuvoloso come quando in cielo c’è solo una coltre grigia compatta, che ammanta, smussa e ovatta ogni cosa. La quinta perfetta.
Io e lei non parliamo. E nemmeno ci sogniamo di accendere la radio. Dentro al camper c’è silenzio. O meglio, c’è solo il forte, consueto rumore, sempre piuttosto invadente, ma mai in fondo insopportabile, del suo incedere. Al punto che, se mai volessimo parlare, dovremmo alzare non poco la voce, anche se siamo seduti di fianco. Ma pure parlare, come fermarsi, rovinerebbe tutto. Non c’è nulla da dire, e nulla diciamo. Ma non perché, badate bene, ci sia un qualche tipo di risentimento fra noi o, peggio, della vera e propria ostilità. Tutt’altro. Su quel camper, attraversando quei villaggi e quella campagna, senza avere la minima idea di dove stiamo andando, stiamo bene. E proprio perché stiamo bene non parliamo. E nemmeno ci guardiamo. Non c’è bisogno nemmeno di questo. Guardiamo invece fuori, lo spettacolo del mondo. E non pensiamo ad altro. Come se non fossimo mai vissuti prima di quel momento, e come se non dovessimo viverne nessun altro in futuro.
È il pomeriggio di un giorno d’inverno, anche se non fa freddo e la primavera non è lontana. C’è ancora luce, e ci sarà per un altro paio d’ore. Penso possiate capire il motivo per cui l’assenza di luce sarebbe inconcepibile. D’altra parte, non potrebbe mai essere luce crescente. Dev’essere, ed è, luce calante, perché tutto, nel mio momento ideale, è crepuscolare.
Ho detto che fermarsi non è contemplato. Ora però devo precisare che il mio momento ideale è tale proprio perché esclude sì - e categoricamente - il fatto di fermarsi, ma non il pensare di poterlo fare. La differenza è sottile, ma decisiva. E quindi è proprio per decidere dove fermarci che a un certo punto rompiamo il silenzio - perché a quel punto sarebbe quest’ultimo, e non le nostre voci, a rovinare tutto.
In realtà, quando dentro quel camper vedo me stesso iniziare a pensare con lei al luogo della nostra fermata, io so che non ci fermeremo proprio da nessuna parte. Ma il me stesso che si trova dentro quel camper non lo sa e non lo sa nemmeno lei, ed è questo che conta, il punto essenziale, perché in tal modo i due possono discutere esattamente come se potessero davvero fermarsi. Questo accade perché non hanno la minima idea, ovviamente, di abitare il mio momento ideale; non hanno la minima idea di abitare il momento di nessuno, se non il loro, e il fatto di abitare il momento di qualcun altro risulterebbe per loro inconcepibile.
Contempliamo per prima la possibilità di scegliere un posto del tutto isolato. Forse questa idea piace più a me che a lei, non mi è chiaro e in fondo la cosa non ha alcuna importanza. Dovrebbe trattarsi, conveniamo, di un posto così isolato che dalle finestre del camper, quella sera, mangiando qualcosa di frugale ma buono, attinto dalle abbondanti riserve di cibo presenti a bordo, non vedremmo nemmeno un’abitazione, né altre luci; non vedremmo assolutamente nulla, perché non ci sarebbe nemmeno la luna e fuori sarebbe buio pesto. Questa assoluta oscurità, accoppiata a un silenzio altrettanto assoluto, rotto solo, ogni tanto, da qualche piccolo rumore indecifrabile, potrebbe generare in noi inquietudine e persino paura, il che, penso io, ma non lei, accrescerebbe il fascino di quella opzione.
All’ipotesi del luogo isolato contrapponiamo quella, avanzata probabilmente da lei, di parcheggiare, invece, alle porte di qualche villaggio, per visitarlo; non una visita turistica, ovviamente, ma la visita di due viandanti che si fossero persi e avessero un disperato bisogno di mangiare qualcosa da qualche parte; non un ristorante per turisti, anche questo va da sé, ma un’osteria popolata esclusivamente da gente del luogo, gente taciturna con cui per tutta la sera non scambieremmo nemmeno una parola salvo quelle necessarie, bensì soltanto sguardi insistenti, lunghi, continui, ma affatto minacciosi e anzi curiosi e forse persino cordiali.
Gran parte della bellezza del mio momento ideale sta proprio in questo nostro prefigurarci, e pregustarci, i due scenari alternativi. Se davvero, quella sera, ci fermassimo in quel posto isolato, o entrassimo in quell’osteria, tutto si rivelerebbe modesto, ordinario, deludente. Ma il mio momento ideale non dura così a lungo, per fortuna, e sta anzi per volgere al termine.
L’ultima immagine che vedo è quella di un triciclo illuminato in modo diretto dalla luce del tramonto. Una luce fattasi di colpo da biancastra ad arancione, perché appena sopra la linea dell’orizzonte la coltre di nubi ha lasciato uno spiraglio ai raggi solari. Il triciclo è poggiato contro il muro scrostato di un’abitazione a ridosso della strada, nel cuore di un nuovo villaggio, il più piccolo fra quelli attraversati quel giorno. Il bambino o la bambina cui quel triciclo appartiene non si vede. In giro non si vede nessuno. Quando scorgo quel triciclo, all’istante mi sovviene il ricordo di qualcosa, ma non riesco a focalizzare cosa. So solo che è un ricordo piacevole, un ricordo che evoca a sua volta un intero periodo della mia vita, un periodo che non è necessariamente l’infanzia, un periodo meraviglioso di cui ho di colpo enorme nostalgia.
Poi, mentre ci lasciamo alle spalle il triciclo, il muro scrostato, il villaggio, capisco improvvisamente, e tragicamente, che il ricordo portato a galla da quel triciclo, che il periodo della mia vita evocato da quel ricordo, che persino quella stessa vita, in realtà, appartengono solo e soltanto al mio momento ideale. Ed è così che quel momento, inevitabilmente, svanisce.
Mi sono sentita come terza viaggiatrice nel camper: silenziosa e curiosa.