La sera d'estate, a Nordest, è sciami di zanzare e pezzi d'asfalto sbriciolato sui marciapiedi. E pure un chiosco malmesso dietro un albero avvizzito, con tre uomini che mangiano in silenzio.
Alessio è italiano, anzi veneto. Mentre addenta il kebab, non si accorge di ungersi. Non si accorge nemmeno del suo posto di lavoro che è sparito. Delocalizzato.
Miguel è colombiano. Pulisce cessi e se ne vergogna. Quando torna nell'appartamento che condivide con altri cinque immigrati preferisce galleggiare nel rhum. E dimenticare.
Abdel è egiziano. Il chiosco è suo, o piuttosto della banca. Ci ha fatto discreti affari, finché non hanno aperto il take-away cantonese proprio lì di fronte.
Mangiano e i loro pensieri si perdono nel vuoto. Nemmeno si accorgono dell'arrivo di due grosse moto. Non vedono le giubbe di pelle scendere con una spranga in mano, dirigersi verso il take-away e cominciare a menare. Si destano soltanto quando le urla del cinese superano quelle dei carburatori della tangenziale. Pochi minuti e le moto se ne vanno. Resta solo il cinese, chinato a raccogliere pezzi di vetro e a buttare sangue dalla testa.
Fa schifo quel cinese che butta sangue. Lo pensano tutti e tre, immobili. Il cinese cerca di scacciare il figlio, uscito in strada. Il bambino non se ne va. Guarda di fronte a sé, verso il chiosco, e poi indica con il dito la luna.
Solo allora i tre si asciugano la bocca e attraversano lentamente la strada. Ci sono ancora molti vetri da raccogliere. E una ferita da curare.