Come nei film
Un racconto di Capodanno che sa di spumante bevuto in un bicchiere di plastica
Parenti non ne aveva. Per lo meno, non lì, in Italia.
Amici? Nemmeno. Per lo meno, non lì, in Italia.
In Italia, dov’era arrivato su un barcone due mesi prima, aveva trovato soltanto un padrone che lo sfruttava nella sua fabbrica di yacht e una baracca di lamiera ai margini del bosco, con un fornelletto da campo dove scaldava il cibo in scatola e un materasso sfondato dove la sera crollava esanime.
Non quella sera, però. Quella era l’ultima sera dell’anno, e lui voleva festeggiare. Gli avevano detto che per via delle leggi contro il virus ci si poteva muovere solo prima delle dieci, e solo per andare a trovare parenti e amici. Quindi, lui non poteva muoversi.
Col cazzo, pensò.
Entrò nel supermercato poco prima che chiudesse. Prese una confezione di birre da sei e due bottiglie di spumante, le più economiche. Poi tre pacchetti di wurstel e del pane. Per abbondare, infilò nel carrello anche un panettone. Voleva abusare di tutto ciò che al suo paese era vietato. Quei fanatici dei suoi genitori lo avrebbero ammazzato, se lo avessero saputo. Ma i suoi genitori erano lontani, e lui voleva abituarsi il più velocemente possibile a tutto ciò che era occidentale. Arrivò alla cassa, pagò e uscì all’aria gelida della sera. A quella no, non si sarebbe mai abituato.
Varcò la soglia della baracca e notò con disappunto che dentro sembrava anche più freddo di fuori. Accese la stufa elettrica e provò a scaldarsi. Il vantaggio di avere una casa piccola, diciamo pure un buco, era che si scaldava presto. Rinvigorito dal tepore, aprì la prima lattina di birra, ne buttò già mezza e si stravaccò sul materasso. Dovette rialzarsi subito, perché dopo qualche secondo stava già rischiando di addormentarsi. Quello stronzo del padrone li aveva sfruttati fino all’ultimo secondo anche quel giorno. Scacciò il pensiero: quella sera non doveva esserci spazio per le cose brutte. Quella sera si doveva festeggiare: la nuova vita in Italia, e anche quel lavoraccio, che prima o poi gli avrebbe permesso di mettere via abbastanza per fare un nuovo passo avanti.
Di colpo, si accorse di avere fame. Molta fame. Scolò la lattina, aprì la seconda, bevve un sorso e afferrò una confezione di wurstel. Li fece a rondelle, li buttò in padella e aggiunse olio. Staccò la spina della stufa e attaccò quella del fornelletto, perché l’allaccio elettrico della baracca, abusivo, non reggeva entrambi i carichi. Lasciò rosolare i wurstel fino a che li vide annerirsi, scolando anche la seconda lattina di birra, e poi la terza. Infine, staccò il fornelletto e riattaccò la stufa. La cena era pronta. Prima di addentare la carne, stappò una delle due bottiglie di spumante e lo versò nel bicchiere di plastica. “Salute, Ahmed”, si disse. Poi bevve. Faceva schifo, ma a lui parve buono.
Quando lasciò la baracca, le dieci erano passate da circa mezzora e lui barcollava vistosamente. Era diretto in centro. Voleva raggiungere la piazza più grande della città. Aprire lì la seconda bottiglia, a mezzanotte. Agitarla e farne esplodere il tappo, come aveva visto fare tante volte nei film. E poi scolarla tutta, gridando buon anno. A nessuno, probabilmente, perché tutti, quell’anno, erano a festeggiare dentro le loro case. Ma non importava. Lui lo avrebbe gridato lo stesso. Più forte che avrebbe potuto. Come nei film.
La volante era parcheggiata sul ciglio della lunga lingua d’asfalto che dalla periferia portava in centro, deserta come mai si era visto l’ultima sera dell’anno. Ahmed la vide, ma non rallentò il passo sbilenco. La raggiunse e vi transitò di fianco, guardando sfacciatamente all’interno dell’abitacolo, la bottiglia penzolante in mano, senza alcun timore: l’alcol gli dava coraggio. I poliziotti erano dentro. Incrociò i loro sguardi, attraverso il parabrezza. Forse ci sarebbero rimasti, pensò. Di certo avevano freddo, pure loro. Chi glielo faceva fare, di uscire?
Distolse lo sguardo dall’auto e proseguì la sua marcia ciondolante. Fu dopo qualche secondo che sentì la portiera aprirsi.
- Fermo!
Ahmed si fermò e si voltò.
Vide uno dei due poliziotti avvicinarsi a lui, mascherina in faccia e mitra in mano.
- Dove sta andando?
Ahmed non rispose. Solo in quel momento si accorse che lui la sua mascherina se l’era dimenticata a casa. Il coraggio era svanito, di colpo. Come la sbronza.
- Città - rispose con voce roca.
- E a fare cosa?
- Festa.
Il poliziotto tacque per qualche secondo.
- Non lo sa che stasera è vietato spostarsi dopo le dieci senza un giustificato motivo?
Ahmed non rispose.
- Favorisca i documenti, prego.
Solo in quel momento Ahmed si accorse affranto della cazzata che aveva combinato. Ora lo avrebbero arrestato e poi lo avrebbero rimandato al suo paese. Di nuovo guerra e stenti. Non avrebbe potuto sopportarlo. Si guardò intorno. Oltre a lui e ai poliziotti, non c’era nessuno. Pensò di scappare. Avrebbe contato fino a tre e poi si sarebbe messo a correre.
Uno.
Due.
Lo sguardo gli cadde sul mitra del poliziotto. Avrebbe sparato? Meglio morire, pensò, che tornare laggiù, fra guerra e stenti. Però, nemmeno di morire aveva voglia. Si rese conto di avere anche lui in mano un’arma. Arrivato al tre, avrebbe fracassato la bottiglia addosso al poliziotto. E poi si sarebbe messo a correre. Sì, avrebbe fatto così. Era un buon piano.
Uno.
Due.
- Ahmed?
Il secondo poliziotto era sceso dalla volante e si era avvicinato senza che Ahmed nemmeno se ne accorgesse. Lo aveva chiamato per nome quando era arrivato a pochi passi da lui ed era riuscito a vederlo bene in faccia, sotto la luce gialla del lampione.
Ahmed rimase spiazzato, immobile. La bottiglia restò a penzolare al suo fianco.
- Ahmed - ripeté il secondo poliziotto, - sei tu?
A quel punto, Ahmed lo riconobbe. Era il poliziotto che lo aveva fermato qualche giorno prima, nei pressi del cantiere dove lavorava. E che gli aveva fatto tutte quelle domande. Quante ore lavoravano lì dentro, quanto prendevano, che contratto avevano. “Stiamo indagando su chi vi sfrutta”, gli aveva spiegato. E allora lui gli aveva risposto. Gli aveva raccontato delle quattordici ore di lavoro consecutive senza riposi né permessi; dei quattro euro l’ora di paga, di cui dovevano pure restituire metà sottobanco; delle false dichiarazioni che dovevano fare al pronto soccorso in caso di infortunio; delle malattie non pagate; delle continue minacce di licenziamento; delle offese e delle botte.
- Sì - gli rispose Ahmed, a capo chino, - sono io.
Il secondo poliziotto, a quel punto, chiamò a sé il primo. Parlarono in disparte per qualche minuto. Poi il primo risalì in macchina, mentre il secondo tornò da Ahmed.
- Dove abiti? - gli chiese.
E Ahmed indicò con l’indice della mano libera un punto nel buio, di fronte a sé, nella direzione da cui era venuto.
La volante parcheggiò nei pressi della baracca cinque minuti dopo.
Il secondo poliziotto scese e aprì la portiera posteriore, facendo uscire Ahmed.
- Stiamo per chiudere l’indagine - gli disse. - Tenete duro ancora qualche settimana.
Ahmed annuì e lo ringraziò, parlando da dietro la mascherina nuova che i poliziotti gli avevano fornito prima di caricarlo in macchina. Poi s’incamminò verso la baracca.
- Ahmed?
Ahmed si voltò.
- Buon anno - gli disse il poliziotto.
- Buon anno - rispose lui.
E per la prima volta, quella sera, sorrise.
Una tristissima realtà e un bagliore di luce.